di Giacomo Sartori
Il nostro modo di vivere non è sostenibile, lo diciamo da anni noi specialisti delle varie discipline della natura e delle risorse, ormai all’unisono, e in fondo ormai ognuno lo sa più che bene. La presente pandemia ci mostra che la non sostenibilità non è un concetto, è una realtà che da un momento all’altro irrompe portando dolore e morte. Nessuno di noi può predire come sarà il mondo alla fine di questa tempesta, le conseguenze economiche, sociali, psicologiche, politiche, geopolitiche. E non è questo il momento di evocare altri prossimi probabili crolli, la loro origine e le loro conseguenze, verosimilmente ben più gravi, e tanto meno di suggerire scenari apocalittici. Pensiamo ora a uscirne con meno decessi possibile, e auguriamoci che gli esiti non siano troppo negativi.
Ancora in pieno dramma possiamo però esprimere dei propositi. Questo è anzi il momento migliore perché ognuno di noi rifletta e decida come posizionarsi, si risolva eventualmente a impegnarsi personalmente. Molti hanno il tempo per farlo, e anzi facendolo darebbero senso alla pausa forzata (nella quale il cibo prende molto posto). Partendo dalla constatazione ormai assodata che i lillipuziani passetti dei nostri governi, che si barcamenano con la vista corta inerente ai giochi politici e ai calendari elettorali, e alle visuali solo economiche (suicide), e senza la capacità di mobilitare i cittadini (che è poi quello che conta di più), non sono sufficienti.
C’è una soluzione, anche questo molti esperti lo dicono da anni, che può cambiare radicalmente il nostro rapporto con il pianeta. Una misura da sola non sufficiente, ma di enorme e determinante impatto. Mangiare poca carne, o non mangiarne affatto. Perché come ormai sanno in molti gli allevamenti producono più gas serra di tutto il settore dei trasporti (circa 15%), per produrre i mangimi sono necessarie un terzo delle terre coltivabili del pianeta (sottraendone via via di nuove alle foreste), compromettendo in maniera più o meno duratura (spesso irreversibile) la fertilità dei terreni, con enormi consumi di fertilizzanti (ottenuti con grande dispendio di energia fossile), andando verso l’esaurimento di uno degli elementi necessari alle piante (il fosforo), contaminando le falde e le acque di superficie, e usando un po’ meno di un quarto delle disponibilità di acqua dolce (dati FAO). In altri paesi, come anche da noi, in particolare al nord.
E possiamo aggiungerci il rischio di pandemie, sempre legate allo stravolgimento degli ambienti naturali, e agli allevamenti animali (le due cose sono spesso legate), o insomma alla cattura di animali selvatici per l’alimentazione. Se per esempio un tipo grave di influenza aviaria diventasse trasmissibile tra gli uomini, sarebbe un disastro.
La proposta è molto semplice, e proprio negli ultimissimi tempi sempre più voci la sostengono. Limitiamo drasticamente il nostro consumo di carne, che ora è di 79 chili a testa all’anno (questo valore comprende anche le parti che non vengono mangiate o sono perse, quindi è superiore al consumo reale). In particolare per quanto riguarda la carne bovina, che in termini ambientali è di gran lunga la più nefasta (l’avicola sta al polo opposto), e il cui consumo aumenta (fonte: Ismea 2019). Per cominciare dimezziamo il nostro consumo, obiettivo auspicato anche da Slow Food, arrivando a 40 chili. Dandoci però dei tempi draconiani: entro il 2022. Possiamo farlo senza molti sacrifici, senza esigenza di modificare troppo la dieta o di avere particolari attenzioni, e anzi traendone grossi vantaggi per la salute (e per il portafoglio). Molti di noi già lo fanno, e in particolare i “flexitariani”, che non mangiano carne un tot di giorni (a loro scelta) ogni settimana.
In altri siderali tre-sette anni scendiamo poi gradualmente a 20 chili a testa, ritornando al consumo medio del 1960 (21 kg). Integrando la nostra dieta con le proteine vegetali dei legumi, dei quali il nostro paese ha una tradizione eccelsa. Certo ci sarà chi non vuole rinunciare alle sue abitudini. Lasciamolo fare, senza stigmatizzarlo, ci sono tanti vegetariani, sempre di più (ora un po’ più del 7%, i vegani da soli sono il 2%), e altri volontari, che possono abbassare la media. Potremmo poi darci qualche anno ancora, per scendere a 10-12 chili a testa.
Personalmente sono da anni e anni su questi valori, aggiungendo al mio consumo reale una maggiorazione del 15% (in modo da armonizzare il mio dato con i valori delle statistiche; fonte della percentuale: FAO), anche se mi piacerebbe diminuire ancora. E, lo aggiungo a scanso di equivoci, rispetto chi non vuole mangiare altri essere viventi, e chi depreca l’atrocità degli allevamenti e dei metodi di uccisione delle bestie (dopo aver visitato un mattatoio di maiali, non ho più potuto mangiare carne suina per una ventina di anni), ma volutamente lascio da parte questi aspetti, che riguardano la coscienza di ognuno.
Con un modesto sforzo avremo fatto una rivoluzione ecologica democratica, avremo ritrovato un po’ di fiducia di poter influire sul futuro, avremo un esempio estendibile a altri settori. E i nostri rappresentanti politici e dirigenti, che riflettono i nostri modi di pensare e di agire, avranno cambiato i loro modi di pensare e di agire. Contare che siano loro a portarci in salvo, è illusorio. Se non forse un modo per scaricare su altri la responsabilità. Non è sfiducia nella politica, ma anzi fiducia nell’azione politica.
Ci sarà chi dirà che è irrealistico cambiare le abitudini alimentari (peraltro molto recenti, considerando i dati di qualche decennio fa) di una nazione, o che è una proposta elitistica, o ingenua, o che i consumi sono già bassi rispetto a altri paesi (non sono inferiori alla media europea, come si legge spesso). Spunteranno certo stuoli di dietologi e esperti che sosterranno che la carne è indispensabile per una dieta equilibrata (e l’India, dove la stragrande maggioranza della popolazione è vegetariana?), e che anche il pesce – ormai più della metà è di allevamento (fonti FAO) – ha problemi di sostenibilità analoghi (verissimo, i pesci di allevamento mangiano farine ottenute da pesci pescati, e ultimamente se ne sperimentano di origine vegetale, quindi agricola), e che i valori medi che si considerano comprendono anche le parti non edibili (vero, appunto), e che la carne di maiale e di pollo richiedono risorse relativamente molto inferiori di quella bovina (verissimo), e che la ristorazione e la tradizione culinaria ne risentirebbero, e che i benefici ecologici non sarebbero poi così grandi. Ci sarà chi dirà che non ha senso un impegno unilaterale in una nazione, se in altri popolosi stati emergenti i consumi stanno aumentando, chi dirà che l’impatto sul settore agricolo sarà catastrofico, chi evocherà devastanti effetti sul paesaggio, chi vaticinerà che mai più gli italiani faranno questo sforzo, i massimalisti diranno che la vera sola via è bandire la carne, i tribuni populisti si faranno un selfie con una collana di salsicce al collo, eccetera eccetera. Prepariamoci a ribattere a ognuna di queste obiezioni, troveremo noi stessi saldezza e determinazione. E intanto agiamo (mangiando). Lo possiamo fare senza troppo incomodo, e ritrovando una alimentazione più sana, senza bisogno dell’aiuto di nessuno. Se lo facciamo noi, lo faranno anche altri paesi. Non c’è altra misura così efficace nel breve periodo, e è una condizione sine qua per mirare alla sostenibilità. Gli esperti sono unanimi (ma anche qui ci sarà chi obietterà questo e quello: siamo pronti).
Certo questa iniziativa avrà effetti molto severi sulla filiera della carne italiana, già in difficoltà. Si tratta di posti di lavoro, di famiglie, di paesi, di paesaggi che devono essere tenuti vivi. Purtroppo ogni cambiamento ha degli effetti, l’immobilismo ci porterà solo alla rovina, quella che sperimentiamo per la prima volta in questi giorni. Facciamo allora questa radicale transizione con loro. Pretendiamo che vengano salvaguardate le razze storiche e i comparti migliori, che venga sostenuta la conversione degli altri, che ci siano aiuti e incentivi. Nell’ottica di valorizzare la produzione agricola italiana di qualità, che ha così successo nel mondo. Non scordiamo comunque che molta carne italiana viene importata dall’estero (40% per quella bovina, 35% per la suina, nel complesso circa un terzo: dati Coldiretti 2016).
Se qualcuno ci stesse, potremmo chiedere a cento (o duecento?) personalità della scienza e della cultura, e a associazioni ambientaliste, di aderire a un manifesto in questo senso, come primi firmatari, disposti a accettare questa sfida anche personale. Magari mirando a un dimezzamento, come primo passo. Chiedendo poi ai singoli cittadini di aderire, impegnandosi a loro volta. E proprio in questo momento così difficile, per quanto possa apparire incongruo, prima di ricadere nella paralisi di fronte all’enormità dei problemi, alla dittatura del PIL, e all’evidente impotenza, e inadeguatezza, dei governanti. Riprendiamoci per quello che è possibile il nostro futuro. Proviamoci.
NdA1: in queste due cartine c’è un errore riguardo alla Spagna (il dato reale è più basso di quello indicato): non ho trovato di meglio
NdA2: qui il link del recentissimo report (scaricabile gratuitamente) sulle diete e sui modi di produzione del cibo sostenibili, stilato da 37 specialisti di 16 paesi, in collaboraione con il gruppo di advocacy “The Eat Forum”, pubblicato in gennaio sulla rivista medica “The Lancet”, e intitolato “Food in the Anthropocene: the EAT-Lancet Commission on ealthy diets from sustainable food systems”: https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(18)31788-4/fulltext
NdA3: e qui una breve recentissima intervista artigianale (in francese) all’ecologo Serge Morand (del CNRS), che mostra i legami tra le tematiche ecologiche riguardanti gli allevamenti e gli animali a quella sanitarie, e in particolare alla pandemia in atto: https://www.facebook.com/watch/?v=977290625999531