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Channel: giacomo sartori – NAZIONE INDIANA
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Ossitocina

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di Giacomo Sartori

La mia nuova compagna, io dico fidanzata, ha molti meno anni di me, potrebbe essere mia figlia. E davvero ogni tanto qualcuno chiede se è mia figlia, il che è imbarazzante. Più frequentemente le persone capiscono alla prima occhiata come stanno le cose, e mi fissano come si guarda un vecchio libidinoso che si tira appresso una ragazzina, perché è pieno di soldi o perché esercita qualche forma di depravato dominio, o anche che senza saperlo si lascia intortare da una che ha scelto di indossare i panni dell’intortata. Manco a farlo apposta dimostra molti meno anni di quelli che ha, il che peggiora le cose. Fino a questo momento non mi ero mai reso conto di quanto siano nocivi gli occhi delle persone, quanto siano pericolosi. Sono sciabolate, tra le quali si deve sgusciare riuscendo a non farsi ferire.
Da quando sto con lei mi guardo allo specchio, e mi sembra che la decadenza del mio corpo sia ormai irrimediabile. O meglio, davanti allo specchio riesco in qualche modo a giocare con le angolazioni e l’illuminazione, o anche solo con la pietà nei confronti di me stesso, è quando vedo una mia immagine che rimango colpito da quanto il mio viso sia scomposto, inciso, devastato. Spesso ci facciamo dei selfie: lo vuole lei, io finora non avevo mai fatto dei selfie, e mai più avrei pensato che un giorno mi sarei ritrovato a farne. Le prime volte risultavo sempre davanti, parevo una maschera barocca, un teatrante grottesco. Ora cerco di defilarmi dietro a lei, in modo che le rughe e le borse della mia pelle siano meno impressionanti. Ma continuano pur sempre a imporsi e a concentrare l’attenzione su di loro: certe cose non si possono aggiustare solo con la volontà.
Cerco allora di tenermi in forma. Lo facevo anche prima, ma adesso non è più per contrastare i miei mali cronici, o insomma non è più solo per quello, ma per piacerle, o più precisamente per non disgustarla. Vado in piscina, cammino, mi stiro utilizzando le posizioni yoga che conosco. Certi giorni faccio addirittura dei piegamenti sulle braccia, che non ho mai fatto. Mi dico che è importante che il mio corpo non sia troppo cascante, mi pinzo con le dita per verificare le varie parti.
E cerco soprattutto di non avere peli nel naso e nelle orecchie: mi strappo con la pinzetta metallica quelli nelle narici, facendomi male, e delle orecchie, pinzandomi la pelle, e mi taglio con il rasoietto quelli sul collo. Cerco di fare del mio meglio, ma c’è sempre qualche pelo disordinato che resta: lei avvicina due dita fulminee e me lo strappa con un movimento deciso e per certi versi trionfante. Poi continua quello che stava facendo, senza commentare, ma insomma chi vuole capire capisce.
Un giorno mi ha confessato che ha paura che io muoia. Io le ho detto che sempre quando si ama si ha paura che la morte ci porti via la persona che amiamo. Lei allora mi ha chiesto se anch’io ho paura che lei muoia. Sei così giovane, le ho detto io, che con lei sono sempre sincero. La mia morte, che si impone adesso a me stesso, mi protegge dalla sua, mi sono accorto, dal timore della sua.
Se potessi con lei starei sempre in casa, o meglio ancora nell’intimità del letto. All’inizio non era tanto facile stare bene bene incollati, tra i nostri corpi rimanevano dei vuoti. Perché non potevo avvicinarmi troppo alle sue parti doloranti – a dispetto della giovinezza ha già parecchi acciacchi -, o insomma non avevo imparato a venircene fuori senza farle male, o anche solo i nostri angoli non si incastravano a dovere, facevano leva. Per quanto si facesse tra noi rimaneva spesso un braccio di cui non si sapeva cosa fare, come un bagaglio che non si sa dove mettere. I tentativi erano sforzati, e quasi sempre deludenti.
Adesso invece abbiamo imparato a fare aderire alla perfezione le nostre pelli: lei si stringe nel cavo del mio braccio appoggiata giù e giù al mio corpo, senza alcuna tasca di aria o di diffidenza, con i capelli che pigiano sul mio collo e i piedi che abbracciano i miei. O anche si schiaccia contro la mia schiena, risucchiandomi come una grande ventosa, e incollando le ginocchia nel cavo delle mie. O sono io che mi incollo alla sua schiena, con il braccio a fare pressione sul seno per ridurre a niente ogni distanza, per spremere fuori dai nostri corpi fino all’ultima molecola di ossitocina. Anche per incollarsi, per arrivare a farlo alla perfezione, ci è voluto del tempo, come per il resto.

(Parigi, 27 settembre 2018)

(l’immagine: Pierrette Bloch, “Sans Titre”, Encre sur papier, 76×57 cm, 2004, selvaggiamente fotografato)


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