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Pianure verticali, pianure orizzontali

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di Giacomo Sartori

Quella che segue è l’introduzione a “Luogo a procedere”, volume ibrido recentemente pubblicato da Tarka Edizioni, con un lungo racconto iniziale di Roberto Carvelli (“La Liguria che manca”), sorta di prologo all’antologia – che segue – di frammenti degli scrittori liguri Marino Magliani e Marco Ferrari; il tutto accompagnato da fotografie dello stesso Carvelli, e con una postfazione geografico/ambientale del naturalista Lorenzo Galbiati (GS)

Chi conosce intimamente la Liguria non può dimenticare che la Terra è fatta di montagne e di mare, e che le pianure in molte sue zone sono eccezioni. Non può dimenticare che i corsi d’acqua nascono nelle montagne e vanno nel mare, portandosi dietro minuscole scagliette di miche che luccicano nel sole o quando si arrabbiano anche pezzi di muri e di case. Non si dimentica che nei torrenti ci sono le trote che si muovono nervose, e nelle pozze stagnanti le rane e le cannucce amate dagli uccelli. E che sotto le ginestre c’è la terra, sempre poca, e sotto ancora le rocce verdi o bianche o grigie, a seconda delle zone. Non ignora che il cielo fa la giunzione tra le terre e il mare, e quindi a ben vedere è un tutt’uno, anche se nelle nostre teste raziocinanti dissociamo opposizioni e contrari, e perdiamo la visione d’insieme.

I coltivatori liguri non avevano vaste pianure, e allora si tenevano stretti i loro pianelli, che erano risicati e in genere nemmeno davvero piani. La loro pianura l’hanno costruita rompendo le pietre e erigendo muri e ancora muri, spostando con i secchi la terra: ogni terrazzetto ne è uno spicchio. Messe tutte assieme le fasce formavano i vari settori della pianura ligure, ognuno appeso ai ripidi fianchi delle montagne come un basto. Ogni piana verticale era diversa, perché le rocce vulcaniche verdi come i serpenti non hanno niente a che fare quelle bianche dure e magre o con le marne remissive e generose. In ognuna bisognava, comunque, faticare per salire la mattina, e per tornare giù in paese la sera.  A meno che la discesa non fosse la mattina e la salita all’imbrunire, nemmeno i paesi erano tutti uguali. Nessuno meglio del narratore ponentino Marino Magliani ha raccontato queste superfici sempre diverse e sempre uguali, e i loro frequentatori abituali o anche clandestini.

I contadini liguri, che i romani consideravano mezzi selvaggi, ma che ammiravano per la resistenza e la forza quando combattevano nei loro ranghi, sapevano che la terra è scarsa è fragile, se non si fa attenzione frana a valle e si perde, si sversa nei torrenti e va a diluirsi nel ventre del mare. È proprio per conservarla che si sono ammazzati di fatica per costruire gli scaloni di muretti dalla costa fin più su che si poteva, nel regno dei castagni. Hanno cominciato già in epoca preistorica, dicono gli specialisti, per i cereali e le viti, e poi ci hanno dato dentro in maniera massiccia quando si è imposto l’olivo, già molto più vicini a noi. Erano investimenti per le generazioni future, che richiedevano coordinato lavoro comune, per il bene di tutti. Del resto per lunghissimo tempo i terreni appartenevano alla comunità, non ai singoli.

 

 

Gli abitanti della Liguria non hanno dimenticato che il sole è a levante o a ponente, è che è bene saperlo per organizzarsi in conseguenza. È fondamentale non scordare che è il sole che scalda le foglie e le fa crescere, e l’inverno intiepidisce le facciate delle case. Loro però ne hanno fatto una divisione filosofica, non solo di angolazione dei raggi e geografica, e potrebbero disquisirne all’infinito. Durante le guerre puniche le due fazioni erano addirittura nemiche, combattevano nei due campi avversi. Gli abitanti di molte altre regioni non sanno più come sono orientati rispetto al sole, per loro non ha alcuna rilevanza.

Chi conosce la Liguria non può dimenticare che ogni scorcio del suo territorio si porta dietro l’impronta dell’uomo, che tutto quello che si vede è modellato e artefatto nel corso dei secoli e dei millenni, che in ogni fazzoletto si sono succedute generazioni e consuetudini e battaglie, che non è stato facile sloggiare dalle foreste e dalle schiene dei poggi le divinità pagane. Gli abitanti delle pianure orizzontali sono convinti che da che mondo e mondo ci siano sempre stati i campi squadrati che sono abituati a vedere, con la trama di campanili e capannoni, non subodorano le foreste di ontani a bagno nell’acqua e i querceti e i cacciatori nomadi che c’erano prima.

I liguri sanno da sempre che le città rubano terra alle pianure. A loro non restava altra scelta che incastrarle tra le montagne e il mare, stringendo le vie e alzando in altezza i palazzi, o arroccarle sulle alture pietrose, dove certo non si sarebbe potuto seminare. Paradossalmente sono proprio le strutture urbane più legate al passato che ci appaiono ora più in sintonia con il presente. Quelle più recenti hanno spesso una desolazione di sfacelo postsovietico.

Il mondo moderno ha bisogno di vie veloci per far viaggiare le merci e le mercanzie, e la Liguria non s’è tirata indietro. Nel suo Il bambino e le isole Marino Magliani ha dato un ruolo di protagonista alla testarda ferrovia ligure appostata tra gli scogli e gli scoscendimenti. Ma anche il nastro veloce di asfalto è stato cesellato non lontano dalla piana del mare: un ricamo di ponti sospesi e di intagli nelle creste e di fori nelle montagne, che fa capolino in tanti libri dello stesso Magliani. Anche le autostrade interne hanno lo stesso stile. Su quelle pianure di cemento e catrame ritagliata nel cielo sfilano come funamboli milioni di camion e di autovetture, i cui conducenti guardano senza empatia i costoni, per semplice noia, come si guardano le pareti aspettando dal dottore.

 

 

Chi ha a cuore la Liguria, e non solo le sue profferte più scontatamente commerciali, non può invece non vedere i danni che hanno fatto gli uomini da quando si sono montati la testa con i motori e il petrolio. Vede i muri che crollano, aprendosi alla morte come addomi squartati che lasciano sgusciare fuori le loro interiora, la loro terra preziosa. Le fasce sono state abbandonate perché troppo risicate per i mezzi meccanici, che il più delle volte non potrebbero nemmeno accederci, figuriamoci rigirarsi. Per l’agricoltura attuale ci vogliono campi immensi e regolari, già da diversi decenni l’ostinazione e la fatica non bastano più. Le pianure verticali hanno cominciato allora a franare, perché gli eleganti muri a secco invecchiano in fretta, se nessuno li accudisce. In molte zone le fasce sono state colonizzate dalle serre, che impediscono alla terra di assorbire la pioggia, la incanalano in rivoli che scalzano i muri e fanno molti danni. Dove persistono si sono spesso metamorfosati in tozze pareti di cemento armato, quasi per conformarsi alle sgraziate costruzioni che hanno colonizzato ogni centimetro accessibile, e allora in inverno l’acqua in eccesso non sa dove sgrondare.

Gli abitanti delle pianure orizzontali non vedono i guasti nei campi rigogliosi di verde chimico, non pensano che le acque sono avvelenate e l’aria è impestata. In Liguria i disastri dell’incuria e dell’assalto impietoso saltano agli occhi, nessun osservatore responsabile può fingere che non si notino. A chi si ferma a riflettere i muri a secco spanciati e i rovi appaiono rimproveri per lo sprezzo dei nostri tempi, i palazzacci di cemento sono la misura della nostra tracotanza. Tutto è insomma più esplicito e brutale.

Gli abitanti della Liguria hanno sperimentato da tempo che ogni terra che racchiude bellezze accoglie viaggiatori che vengono anche da molto lontano. I viandanti assetati di bellezza avevano gli occhi freschi e curiosi, vedevano ogni cosa come se fosse nuova, l’apprezzavano di più di chi ci abitava da sempre. Guardavano con deferenza i porticcioli e le chiese e le case, ma spesso anche le agavi e le querce e le rupi. Sapevano scovare il fascino anche dove chi ci abitava non lo sospettava, per esempio nell’architrave di castagno di una porta decrepita o nell’acciottolato di un carrugio.

In Mare verticale Marco Ferrari ha cartografato la quantità incredibile di scrittori e artisti e intellettuali che si sono in qualche modo incrostati alle varie località sulla costa o nell’immediato retroterra delle Cinque Terre. Questi amanti della grazia e del sole tiepido si sono spesso legati a personaggi e comunità locali, e attiravano in zona altre personalità del loro giro. Il catalogo di nomi e relazioni che ne risulta è impressionante, non credo ci siano corrispettivi in altre regioni italiane. Considerando anche gli artisti locali, tutta la costa ligure ha rigurgitato per decenni di arte, e spesso s’è incistata nelle opere. Spesso i paesaggi dei quadri e dei romanzi non rispettavano pedissequamente la realtà, spesso erano più aspri e selvaggi, o anche più dolci e rarefatti, ma cosa importa, il fine dell’arte non è certo riprodurre le apparenze come uno specchio.

Anche nei tempi presenti arrivano in Liguria queste anime che cercano il silenzio e la bellezza, che sanno scovarla. Approdano fuori stagione, o anche se ne stanno rintanati nelle loro tane di incanto, uscendo allo scoperto per cammini traversi: sanno come evitare le folle e tutte le trappole. Nonostante la loro raffinatezza e la loro cultura fanno pensare a accorti animali selvatici. E non a caso è proprio con gli animali non addomesticati e con le selvatichezze della natura che sono più in sintonia. Roberto Carvelli è uno di questi. Sa come muoversi nell’ombra del sottobosco e dei chiostri, sa come non dare nell’occhio. Sa che il mare è accessibile solo all’alba è al tramonto, poi diventa pericoloso. Sa come andare a ammirare le vestigia del passato senza lasciarsi disturbare. È abituato a queste sue strategie partigiane, e le ama: soffre quando è lontano. Ripensa con nostalgia alla Liguria, e ha solo desiderio di ritornarci.

Molti abitanti della Liguria ne avevano però abbastanza della fame e della ristrettezza dei carrugi e di molti scorci che a noi avidi di bellezza appaiono così affascinanti. Sarebbe sbagliato idealizzare il passato, quello che per noi è struggente grazia per loro era carcere di fatiche e sudore, di futuro senza speranze, schiavitù di salire e scendere le balze senza mai mangiare a sazietà. Cedevano allora alla tentazione di fuggire via nel mare, avendolo così vicino l’allettamento era irresistibile, e si imbarcavano. Andavano in capo al mondo, desiderosi di trovare del pane e del companatico che costassero meno tormenti. Lavoravano duro e bene, questo lo avevano nel sangue, e facevano figli lì, vivendo come se avessero dimenticato da dove provenivano. Non riuscivano però a non pensare ai chiaroscuri degli olivi e all’odore resinoso dei limoni, alla linea del mare che incontra quella del cielo. Molti esuli delle storie di Marino Magliani si portano dietro la Liguria nel respiro e in fondo agli occhi.

Ormai da tempo, Marco Ferrari lo constata nei suoi testi che sono nitide fotografie dei paesaggi, tra i visitanti prevalgono le orde che hanno furia, sanno quello che vogliono e vogliono vedere soddisfatti i loro impellenti e precisi bisogni. Ottengono gli appagamenti per i quali sono venuti, a volte in un solo giorno, e poi se la filano. Pagano per mangiare nelle trattorie posticce, per dissetarsi e leccare gelati, per sdraiarsi sotto un ombrellone, per ormeggiare la loro barca, per parcheggiare i veicoli e passeggiare nei borghi. Tutto ha un prezzo preordinato, le regole del gioco sono in realtà molto facili. Per chi se lo può permettere ci sono sistemazioni lussuose e sollazzi da favola, che si portano dietro l’eco dei fasti turistici passati, è la specialità della casa, ma si viene incontro prima di tutto alle tasche con meno possibilità. Poi i rumorosi consumatori di bellezza ripartono, e chi s’è visto s’è visto. Non si può biasimarli, perché è il nostro mondo che corre veloce e mercifica ogni cosa, considerando la natura vivente – quella che ci fa vivere anche a noi – una miniera da esaurire o uno sfondo per le fotografie, senza valore intrinseco. Non è solo la moneta corrente del turismo. E certo la bellezza non può più essere riservata per pochi eletti, senza beneficiare anche gli altri.

 

 

Marino Magliani la sa lunga sui rivolgimenti che il tempo ha impresso alla sua regione a forma – e lui sa che niente è casuale – di boomerang. Li ha vissuti sulla sua pelle e li conosce in profondità. Ha visto scomparire nel nulla un mondo legato mani e piedi alla terra che sembrava dover essere eterno, ha visto dilagare il cemento sulla costa e le speculazioni edilizie. Ha visto i giramondo del nord comprare le case malmesse del suo paese e ristrutturarle, ha visto i loro figli rivenderle a un’altra generazione di nordici migratori quando loro erano vecchi. Conosce le vicende dei partigiani che sulle balze e nei boschi si sono battuti e sono morti per la libertà e per un mondo migliore. Tutti questi elementi sono presenti e costituiscono il tessuto delle sue storie. Lui vive da decenni lontano, visto che è stato spiaggiato dalla vita su una fredda costa del nord battuta dal vento e dalle tempeste, ma con le sue lunghe antenne ancestrali capta tutto.

Lui però non fa confronti, non pontifica. Non ha rimostranze, non prova risentimento. Osserva quello che vede, senza giudicare e senza tirare conclusioni. Non gli interessano i meccanismi generali, lo intrigano i gesti e le parole del presente, effimeri ma a ben guardare anche abissali. Sa per istinto che la sola verità delle esistenze è quella, tutto il resto sono raziocinamenti e illazioni che valgono quello che valgono. Registra quindi quello che c’è adesso, o insomma nell’adesso delle sue storie pregnanti. Il risultato è ancora più implacabile di una denuncia esplicita.

 

 

 

 


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