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Le coglionerie di Paolo Giordano, i romanzi merda, le vetrine delle belle librerie all’estero

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di Giacomo Sartori

Cominciamo dai fatti. In quest’autunno ancora mite in tutte – dico tutte – le vetrine delle belle librerie della città estera dove mi trovo c’è la traduzione di una merda di Paolo Giordano. Ma no, già parto male, il prodotto di Paolo Giordano devo chiamarlo romanzo, non merda. Lo sappiamo tutti, fin dall’inizio romanzo ha voluto dire merda e nettare, borghesia ottusa e animi illuminati, baldanzosa ignoranza e monacale erudizione, bigottismi e trasgressione, logorrea e essenzialità, abissi spirituali e sgualcite banconote, accademici sovrappeso e geniali morti di fame, popolo e elite, nauseanti luoghi comuni e eterea intelligenza, inondazioni editoriali e tirature infime (o postume), piattezze letterali e strati sotterranei di senso, verità sull’uomo e prevenzioni del tempo, artifici retorici e libertà espressiva, romanticherie e rigore dell’analisi, frasi dozzinali e perle linguistiche. E anzi, proprio in questa dialettica tra opposti inconciliabili, e nell’impossibilità di tracciare precise linee di demarcazione (e ancora più di teorizzarle), sta forse l’essenza dell’inafferrabile genere. Quindi mi correggo, questa mercetta tipografica non la chiamerò più merda, ma romanzo. Romanzo a tutti gli effetti. Romanzo che io non leggo, e non leggerò mai, che non ha nulla ha a che fare con la mia idea di romanzo (e con i romanzi e non romanzi che scrivo io), ma comunque romanzo. E mi scuso anzi per aver usato quel vocabolo, per la mia volgarità: non volevo offendere nessuno. Chi mi conosce sa che a parte qualche asmatica intemperanza sono una persona mite e tollerante (e anzi sempre più con l’età). L’insignificante Giordano ha tutto il diritto di scrivere le inezie che scrive, e contento lui se ha tanti lettori. No, sbaglio: non solo ha diritto, ma deve assolutamente scrivere le coglionerie che scrive, il Romanzo, la Letteratura, ne hanno bisogno. Non potrebbero esserci i poli sublimi, senza i paoli giordani.

[È scontato che adesso sarò accusato di essere invidioso di Paolo Giordano, o insomma del suo successo, di essere il tipico scrittorucolo frustrato che sfrigola nel livore. Giuro sulla Bibbia, o sui volumi della Recherche, che non sono invidioso di Paolo Giordano o della sua notorietà. Come non potrei invidiare un signorotto che conduce una Ferrari, perché a me la sua Ferrari non dice nulla, e tanto meno la tipologia umana che ama possederla e fregiarsene. So però che sono parole inutili: già dalle prime righe sono stato bollato come un geloso fallito, quindi lascio stare.]

Riveniamo ai fatti: in tutte le vetrine delle librerie (e anche dei giornalai!) della città dove sto c’è questo lucido romanzo di Paolo Giordano, che è il contrario di quello che io reputo un buon romanzo, ma è pur sempre un romanzo (si noti che faccio dei progressi). Questo romanzo è pubblicato da un’ottima e gloriosa casa editrice del paese dove mi trovo adesso. Un editore che qualche anno fa (dico qualche, non dieci) non avrebbe nemmeno preso in considerazione uno scrivente come Paolo Giordano. A costo di andare a scovare (e magari in un periodo in cui la narrativa italiana non aveva la cote!) autori italiani poco noti, o non ancora noti, a costo di correre il rischio (succedeva) di vendere solo qualche centinaio di copie, per poi pubblicare un’altra opera dello stesso, che a sua volta vendeva qualche centinaio di copie (succedeva). Adesso invece questo solido pilastro delle lettere traduce Paolo Giordano, e a quanto intuisco non prende nemmeno più in considerazione autori italiani che non siano come Paolo Giordano. Questa è un’autentica rivoluzione, che io, che non so in fondo nulla dell’editoria (mi interessano i dettagli?), e che frequento sporadicamente persone che ci lavorano, e non vado alle fiere, e ho tutt’altro per la testa, rilevo nelle vetrine delle librerie davanti alle quali mi fermo. [Certo gli addetti al mestiere, se leggessero queste mie parole, avrebbero a questo punto un sorrisetto di condiscendenza: avrebbero perfettamente ragione.]

Devo del resto confessare che non entro spesso in libreria, nella città dove mi trovo, anzi molto di rado. Il problema è che se entro compro dei libri, perché a me i libri piacciono molto, e trovo sempre qualcosa che mi entusiasma. Se faccio l’erroraccio di entrare, acquisto tre, quattro, cinque libri (quando ne compro uno solo è perché sono di fretta, o la libreria proprio non mi garba, ma mi dispiace che il libraio mi veda uscire a mani vuote: oltre ai libri amo anche i librai), che qui sono molto costosi (in altri periodi erano meno costosi che in Italia, ora non è così). E insomma arrivo poi a casa con la mia piletta di libri nuovi fiammanti, e mia moglie vede che invece di aver fatto la spesa ho comprato solo libri, e il frigo resta vuoto. Mia moglie è molto comprensiva, e anche lei ama molto i libri, ci mancherebbe, però insomma le piace anche che nel frigo ci sia qualcosa, quando ritorna stanca dal lavoro. Questo è il motivo per cui lotto con me stesso per non entrare nelle librerie. Beninteso con la stessa difficoltà e gli stessi cedimenti che hanno i giocatori di azzardo nei confronti dei luoghi manigoldi dove si gioca. Però insomma in questo dominio posso essere fiero di me, di solito riesco a padroneggiare le mie pulsioni (per prudenza le vetrine le guardo soprattutto nelle mie passeggiate notturne, quando so che non corro alcun rischio di poter entrare a spendere i quattrini destinati al cibo).

Ma torniamo ancora ai nomi italiani nelle vetrine delle librerie della città di cui parlo. Se si trattasse solo di Paolo Giordano sarebbe niente. Il problema è che in questo momento affacciati alle belle strade ci sono molti altri romanzi italiani che nella mia testa finiscono nella stessa categoria in cui è cascato quello di Paolo Giordano. Veramente tanti. Troppi. E la maggior parte pubblicati da gloriose case editrici che fino a qualche anno fa avrebbero disdegnato mediocrità del genere. Adesso non voglio fare dei nomi (già mi sono inimicato per tutta la vita il simpatico Paolo Giordano, per un post può bastare), ma insomma ci siamo capiti, parlo di quella desolante medietà (talvolta con qualcosa di buono, e/o accattivante, ci mancherebbe) che più sopra mi sono lasciato andare a chiamare pubblicamente (in privato la mia testa fa quello che vuole) merda. [Del resto la pensano come me, è noto, l’ottanta per cento dei critici, anche se per vari motivi spesso si limitano a mugugnare in privato o a rimpiangere i bei tempi passati, il cinquanta per cento degli addetti nelle case editrici, il trenta per cento dei librai e il venti per cento dei giornalisti culturali)]. Ma intendiamoci, aguzzando bene lo sguardo qualche bel nome italiano, certo un po’ sul lato, o nell’angolino, qualche volta c’è. Siti, per esempio, confezionato da un editore molto elegante e molto prestigioso, anche se davvero di nicchia.

E allora mi accorgo, lì davanti alla vetrina notturna, che sono parecchio preoccupato. Ma i lettori di questo paese, mi chiedo, avvezzi a ben altri nutrimenti (almeno nel passato), ameranno davvero queste insulsaggini italiane? La traduzione concorre forse a mascherarne almeno in parte l’idiozia? O le leggeranno perché è quello che passa il convento, come mandano giù i pomodori senza sapore, ormai ineludibili sui banchi della verdura? [Quando chiedo a mia madre novantaduenne: ti è piaciuto Paolo Giordano? Lei risponde: . Guardandola negli occhi: Ma ti è piaciuto DAVVERO? Pausa, poi: No] O forse il pubblico é ormai costituito prevalentemente da zittelle con cagnolino e papille gustative atrofizzate, visto che i giovani non leggono più? Quanto pesa questo fattore sociologico? E questo supposto rincoglionimento dei lettori va forse di pari passo con il pensiero unico? Perché proprio l’Italia è all’avanguardia in questo genere di laccate mercine? Davvero i critici italiani non hanno alcuna responsabilità, con i loro scafati silenzi, con i loro inspiegabili imballamenti, la loro pigrizia a leggere, la loro lamentosa pavidità? E che dire degli addetti delle case editrici che presuppongono che mia madre e il resto della gente – che disprezzano (altro che altezzosità di chi crede ancora – candido e arcaico! – alle qualità!) – non abbia cervello? E questi politici, rei del genocidio della cultura? Ma che ne sarà allora della carica innovativa e ermeneutica del romanzo, che per qualche secolo ci ha regalato perle così belle? Se le cose vanno così in fretta, l’anno prossimo troverò ancora Siti in vetrina? La forma romanzo può sussistere, se si annienta uno dei suoi due poli? Resisterà un manipolo di catacombali buongustai, o saranno cancellati anche quelli? O tutto all’opposto per qualche motivo ci sarà un magnifico riscatto dell’intelligenza e dello spirito critico e dell’apertura mentale e del gusto, e si tornerà a un affastellamento di geni, come è successo in qualche epoca (anche recente) della storia letteraria? Tutte domande molto ingenue (e in parte anche interessate: anch’io scrivo romanzi), di un poveraccio fuori da tutto (e che certo non è stato alla fiera di Francoforte) e molto invidioso della mediatica coglioneria di Paolo Giordano.

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