di Giacomo Sartori
Solo qualche pensiero personale a caldissimo sulla “geografia”, ma forse sarebbe meglio di parlare sulla sociologia, di questi massacri, prima ancora che siano rivendicati e che se ne conoscano i dettagli (per ora se ne sa pochissimo), prima che sia digerita l’emozione, prima che parta la grande macchina delle interpretazioni. Perché questa che è stata colpita non è la Parigi della politica, del potere (e delle decisioni che sono state prese di recente sui bombardamenti in Siria), delle imprese internazionali, della finanza, o anche solo delle grandi ricchezze. E’ la Parigi dove da una ventina d’anni chi può permetterselo, e nella maniera in cui può permetterselo (i prezzi sono alle stelle, e tagliano fuori di fatto una gran fetta della popolazione), fa la “fête”, e in particolare appunto il venerdì e il sabato.
I terroristi avrebbero potuto colpire un grande teatro (sono sempre stupito, quando mi capita di andare per esempio all’Odéon, dal pubblico, rigorosamente bianco e spocchiamente danaroso), “l’Opéra”, alcuni ristoranti supercostosi dei “beaux quartiers”. Perché in realtà da un paio di secoli tutta la capitale il fine settimana, ma non solo, “fait la fête”, la pittura e la letteratura se ne sono ampiamente occupate. Ma qui appunto negli ultimi vent’anni sono nati (per contaminazione a partire dalla rue Oberkampf) centinaia di ristoranti e ristorantini e baretti di tutti i tipi (non pochi tenuti da italiani espatriati, o dove lavorano degli italiani, detto tra parentesi), molti con le loro “terrasses”, e la gente viene anche dagli altri quartieri e dalle periferie, riempie i marciapiedi e nelle ore di punta anche le strade. Si dice questa mattina che è stata scelta quest’area per la vicinanza con la sede di Charlie Hebdo, per marcare il legame con quella prima e simbolicissima carneficina. Non credo che la ragione che sia questa. Come non credo che c’entrino molto le questioni logistiche, anche se colpire le zone ricche, molto più sorvegliate, e più facili da controllare, sarebbe stato molto più difficile.
Il ristorante d’angolo Petit Cambodge della rue Bichat, per esempio, dove i morti pare siano stati quattordici, non ha una clientela danarosa, ma piuttosto di studenti e giovani che appunto possono pur sempre permettersi un ristorante (relativamente) non caro. Di faccia, giusto dall’altra parte della strada, a dieci metri, c’è, e esisteva ben prima, uno “storico” caffè arabo, con una clientela più popolare, o insomma anche popolare (soprattutto a certe ore), e molto più legato al quartiere. E di faccia al locale della Fontaine au Roi c’è un Mc Donald, dove per due euro si può pur sempre buttar giù qualcosina (la stessa cifra in un qualsiasi altro locale non basta per un caffè). Mi sembrano molto indicative queste prossimità, che aiutano a capire meglio come e in quale contesto sono stati scelti gli “obiettivi”.
Come anche non mi sembra anodino che risalendo la rue du Faubourg du Temple, a poche centinaia di metri dal ristorante Casa nostra dove ci sono stati dei morti, si entra nel cuore popolare di Belleville, dove predominano persone di origine asiatica e magrebina (e anche qui ci sono ora moltissimi giovani italiani). Perché a Parigi esistono ancora alcune zone davvero popolari, anche se se si stanno riducendo sempre di più, mano a mano che gli abitanti sono catapultati nelle periferie con il solito meccanismo dei prezzi degli appartamenti e degli affitti. Qui sì c’è la vera povertà, e per la strada si incontrano molti reietti. Duecento metri nella direzione opposta, invece, oltre piazza della République comincia invece l’ormai danarosissimo Marais, dove vivono tantissimi facoltosi italiani che possono permetterselo.
Mi domando se nella testa di chi ha organizzato queste stragi, Parigi, e la Francia, e insomma il Nemico, sia questa realtà della “fête” del fine settimana. Perché appunto qui, o non lontano da qui, vivono, o bazzicano loro e i loro amici, parte delle loro famiglie. Molti giovani “di famiglie svantaggiate” non possono certo permettersi i caffè e i ristoranti, ma ci passano davanti, li conoscono, stanno lì a parlare o a farsi spinelli in gruppetti nelle entrate dei palazzi (personalmente mi ha sempre colpito questa segregazione dal sapore di apartheid, e che fa parte del paesaggio di queste zone, è l’altra faccia della fête”). Mi domando se questi ragazzi, tra cui qualcuno viene purtroppo indottrinato e si radicalizza, l’altra Parigi, quella vera, quella dove si decide e circolano i grandi capitali, la conoscano. Confesso che io stesso, con la mia pelle e i miei capelli chiari, sono sempre stupito, e non mi sento a mio agio, quando ci vado. E’ davvero un altro mondo, fatto di inarrivabili beni immobili e mobili, di pulizia (anche etnica), di distanza abissale da chi è escluso dalla scuola e dal lavoro, e ha difficoltà a sopravvivere.
Questi invece sono i quartieri della “mixité”, belli e vivi proprio per la gran mescola di culture e abitudini, e per la tolleranza che è dipinta su tante facce e si respira nell’aria. Direi che il Bataclan, con le svariatissime forme di musica e gli spettacoli molto diversi che propone, può essere considerato un tempio della “mixité”. E paradossalmente è proprio questa Francia più aperta e mista che è forse, o comunque lo sarebbe, più propensa a capire le ragioni e i problemi dei giovani che si sono radicalizzati, che viene presa come bersaglio. Una Francia che certo non vuole sentire parlare di Front National e di derive populiste. Il terrorismo finisce sempre per prendersela con chi gli è “strutturalmente” più vicino (pensiamo al Partito comunista nei nostri anni di piombo, pensiamo proprio a Charlie Hebdo).
In realtà queste zone stanno cambiando a vista d’occhio. Proprio nella rue Bichat e nelle vie limitrofe stanno apparendo eleganti studi di architetti, luccicanti negozi di vino o “traiteurs” dai prezzi imbarazzanti, negozi di giocattoli o di sontuosetti vestiti per bambini, ristorantini con certe pretese. E nei paraggi dell’uscita delle scuole si vedono un sacco di giovani mamme spigliate ma danarose con bambini che di popolare non hanno proprio nulla. In altre parole è in atto una galoppante gentrificazione, e la corrispondente evacuazione delle frange più povere. Per abitudine questi giovani che si stanno insediando e stanno prendendo possesso delle case e delle vie vengono chiamati “bobo” (bourgois – bohémiens), termine apparso nei primi anni 2000, e che per un breve periodo ha indicato in modo efficace una fetta di popolazione con afflati artistici ma non sprovvista di mezzi. Personalmente questi nuovi protagonisti vincenti mi sembrano ora sempre più bourgois che bohémiens, pur sprovvisti di molte rigidità borghesi e pur pareccchio disinibiti, a cominciare proprio dalla maniera di parlare e di vestire. Ma sarebbe un lungo discorso, e qui mi interessa solo sottolineare il carattere di transizione, sia geografica che forse anche storica, di questa Francia che è stata scelta come simbolo da colpire.
Tutto ciò lasciando per ora prevalere l’emozione per i morti e i feriti, come è giusto.
Il massacro nella Parigi che cambia è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.