di Giacomo Sartori
Quando sono in una delle mie buche qualche volta mi chiedo perché sono finito lì. Alzo gli occhi, e guardo il cielo, o insomma la fetta di cielo che posso vedere, se la buca è molto profonda, o anche lo strato più o meno denso di alberi, se sono in un bosco, o il merletto formato dai tralci, se mi trovo sotto una pergola di viti, cercando la risposta. Perché?, mi domando, aggrappandomi alla manciata di terra che ho ancora in mano, come cercando un appiglio che possa sorreggermi. Cosa mi ha portato qui?, mi chiedo. Cosa ci faccio in questa vasta pianura, sotto questo cielo più simile a un mare?
Con quei perché? non cerco beninteso le cause immediate: so bene che se sono lì mezzo sotterrato, o anche annegato per intero (dipende da quanto è profondo lo strato di terra), è perché ho firmato il certo contratto per fare il dato lavoro nell’ambito della data iniziativa sostenuta dal tale organismo, e avversata dal tal altro, che serve alla determinata cosa ma purtroppo non alla tal altra, perché il famigerato fattore legato alla stranota condizione lo impedisce, almeno fino a che l’eterno intoppo non sarà rimosso, il che dipende da questo o quel dettame politico (si arriva sempre lì), a sua volta subordinato a ingiunzioni ancora più dittatoriali, sempre politiche. La realtà è sempre fatta di tanti pezzetti concatenati gli uni agli altri, e le mie giornate passano a cercare di farli combaciare, io che non ho mai amato i puzzle. Con l’aggravante che non conosco l’immagine che sto ricostruendo, perché nessuno me l’ha mai mostrata, e nemmeno so se ci sono abbastanza pezzi per completarla: vado avanti alla cieca, augurandomi che dio me la mandi buona. A volte è divertente, a volte estenuante, soprattutto se si tiene conto che di tanto in tanto un terremoto rimescola il cantiere in fieri, e devo ricominciare tutto da capo (o quasi). Finché non perderò definitivamente la pazienza, e darò un calcione a quel quadro non finito e non bellissimo, composto da aridi frammenti di cartone, che è la mia vita: mi conforta il pensiero – certo anch’esso velleitario – che se un giorno ne avrò voglia potrò sottrarmi al gioco.
Perché?, mi chiedo ancora, sapendo che non sono certo quelle certosine catene sequenziali alle quali il mio cervello mi ha abituato che mi daranno una risposta, e che la spiegazione che cerco è più generale, sfugge forse all’ordine rassicurante ma anche artificioso delle concatenazioni di causa e effetto, più o meno ossessive che siano. Perché proprio ora mi ritrovo in questo preciso campo coltivato, sotto questo cielo che sembra invece incolto, con queste nuvole simili a straccetti sfilacciati di garza?
Osservo quelle incostanti garzette bianche, quasi potessero aiutarmi a trovare una risposta. Sento che gli indizi ci sono: sono io che non riesco a decifrarli, sono io che sono miope. Perché sono finito a fare quest’attività così strana, e in questo modo così intimo, così viscerale? Perché non la microelettronica, o la gastronomia, l’architettura? Mi accorgo però che quelle nuvolette sono troppo inconsistenti, troppo fragili, per potermi aiutare. Ne hanno probabilmente già fin sopra i capelli a pensare al vento che le strattona e sbrindella, sanno forse ancora meno di me chi sono e che destino avranno.
Alzo un po’ gli occhi, e cerco una spiegazione nel ventre profondo del cielo, là dove non ci sono inaffidabili garzette bianche. Mi sembra che quel blu abissale, lui sì, possa albergare nella sua pancia trasparente delle risposte affidabili. Sono le eredità famigliari, quelle innominate maschere che si tramandano assieme ai cromosomi, a guidarmi?, mi chiedo. La mia esistenza ricalca comportamenti ben codificati, come i personaggi del teatro popolare, ricopiando un perentorio destino già scritto? O ubbidisce invece all’algebra spirituale delle reincarnazioni? Non risulta piuttosto da lacerti di tutto questo, come la confusione di vortici e bonacce generata da venti che spirano in sensi diversi, che si scontrano, si sommano, si annullano? Nemmeno quell’oceano di aria sembra però volermi dare una mano. Non pare accorgersi che esisto, si gongola nella sua grandiosa indifferenza alle cose umane.
Sento che per ognuna delle possibili piste ci sono segnali ben precisi, si tratterebbe solo di saperli afferrare e tirare con fermezza verso di me, come pesci presi all’amo, per poi aprire le loro pance misteriose e estrarre le delucidazioni che cerco. Ma io non ci riesco, posso solo osservare di nuovo quelle cangianti nuvolette che fanno i capricci sopra di me. Devo arrendermi all’evidenza che non saprò mai tradurre in parole certe intuizioni che a tratti mi sembrano essere abbozzi di risposte: non capisco niente, non so niente. Perfino i pochi punti fermi che credevo avere si rivelano fondamenta precarie e franose, come appunto gli sbuffi di vapore sopra la mia testa che si stirano, si sfilacciano, si squagliano. Sento che sono agito da forze che non conosco, che mi strattonano dove vogliono loro: nemmeno riesco a dare un nome, alle correnti sotterranee che hanno sempre fatto di me quello che volevano, e sempre lo faranno.
Mi stringo nelle spalle, e mi dico che fa un po’ freddo. Devo finire i rilievi prima di gelarmi, mi dico, lasciando cadere la terra che non ricordavo più di avere nella mano. Mi conviene affrettarmi, se non voglio fare tardi, mi sprono, anche nel caso non faccia freddo. Come la maggior parte dei miei contemporanei passo gli anni a dirmi che sono in ritardo e che mi resta da fare questo o quello, e poi ancora quell’altro ancora, e ho l’impressione che il tempo non sia mai abbastanza. Pure io penso in continuazione a come sarò soddisfatto quando avrò finito questo o quello, o potrò fare quell’altro, anch’io vivo quasi in perennità nel cosiddetto futuro, quel miraggio lenitivo che svapora prima che lo si possa raggiungere. Mi figuro quello che farò per non pensare al presente, in altre parole non vivo. Quello che chiamo futuro non è che la mia vigliaccheria, la mia inettitudine.
Abbasso lo sguardo, e riprendo contatto con la terra, come si ritrova un famigliare che ti accetta come sei e ti incoraggia sempre, o insomma ti sopporta. So che qualsiasi cosa succeda lei non mi snobberà, non mi prenderà in giro, e mal che vada un posto per riposarmi me lo troverà sempre. Mi concentro sull’operazione che devo portare a termine, guardando e toccando quella furbona che si finge materia minerale, ma è piuttosto apoteosi di attività, palpitante agglomerato di costruzioni e esseri viventi, proprio come le nostre folli metropoli (pure lei con le sue contraddizioni e esalazioni, e la sua rude bellezza). Avanti!, mi dico, imitando senza volerlo il tono di voce di mio padre. Coraggio!, mi dico.
Se ci facessi bene attenzione quando abbandono a questo modo i cosiddetti questionamenti cosmici percepirei forse il fragore di una serranda che si abbassa come una implacabile ghigliottina, chiudendomi fuori dal solo veicolo che avrebbe potuto portarmi da qualche parte. Se fossi riuscito a entrare in quella navetta (la sapienza?), invece di venirne escluso come un clandestino beccato senza biglietto, sarei forse arrivato a qualche precetto o ricetta che mi aiuterebbe a esistere. Ma non sono un antico filosofo, non sono un grande saggio, e nemmeno uno di quei virtuosi giocolieri di frasi e citazioni, questi sgamati professorini che vivono di parole, sono un bestione impaurito dai suoi stessi limiti. La mia condanna è questa, partorire mio malgrado schiaccianti domande e non avere i mezzi per rispondere, non poter fare a meno di anelare spiegazioni e teorie, e dover invece deglutire aria e informi grumi di parole.
Senza rendermi conto ritorno al rosario dei miei pensieri utilitaristici, che nel mio caso sono in assoluto i più rilassati, più appaganti. Ho già misurato l’acidità dello strato più profondo?, mi chiedo. E quel sette virgola sette di quello sopra sarà affidabile? Che sia il caso di rifarlo? Mi reimmergo nella pedissequa routine lavorativa, quel bagno di reale che anestetizza le mie ambizioni di trovare un senso alla mia esistenza. Ma forse è proprio mentre sono in balia di quelle riflessioni pratiche concernenti la terra che tocco il mio apice, e approdo a qualcosa. In quegli istanti sono attento e concentrato, e anche aperto e recettivo, e rilassato, appagato, quasi divertito. In altre parole seppellito in quella buca di terra, che è una evidente allegoria della morte (manca solo il teschio amletico posato sul bordo), finalmente vivo. Vale la pena che stimi la percentuale di sabbia anche qua in mezzo, se l’ho già fatta sopra?, mi chiedo, e ho la sensazione di vivere, sento nei miei muscoli e nelle mie vene che sto vivendo.
Ho un po’ fame, mi dico mentre finisco quello che devo fare. Il corpo non smette di sottopormi le sue richieste, soprattutto quando comincio a essere a corto di pensieri, quasi temesse che senza il suo aiuto mi annoierei. Mi sottopone le sue istanze, e io le prendo graziosamente in considerazione come un monarca seduto sul suo scranno, un re che può fare il bello e cattivo tempo. Ma so bene che se lo disdegno sarà lui poi a alzare il tono delle rivendicazioni, fino a incollerirsi e maltrattarmi, e magari anche a farmela pagare. Sì, ho proprio fame, mi dico quindi, mentre ripongo i vari strumenti nella mia borsa da fotografia. Quasi fosse solo una questione cerebrale, quasi non avessi un corpo.
Devo fare pipì, mi dico, mentre già mi sollevo con le braccia per uscire dalla buca. Cerco un bar dove mangiare un panino e la faccio lì, mi dico. Pedisseque prese di posizione mentali che fanno ripartire nuove catene causali di pensieri, ennesime disordinate e spesso mozzate concatenazioni cerebrali. Perché beninteso le procedure e le modalità anche solo per trovare un bar e mangiare un panino sono in fondo numerosissime, per non dire infinite. Per non parlare della successione di gesti per sistemare i campioni nel bagagliaio della macchina e mettermi al volante, che suscitano uno sprizzare mentale simile al folle schizzo di scintille di una fiamma ossidrica.
Mentre guido è invece la fascia asfaltata davanti a me, e tutto quello che avviene su di essa, e la sponda di costruzioni o di vegetazione sui fianchi, che stimolano e intrattengono il mio pensiero. La mia mente smette di occuparsi di me, e divaga a partire da quella moltitudine di immagini sempre diverse, rapide e come possedute da un cinetismo schizofrenico, quasi futuriste, che captano i miei occhi. Per qualche minuto, ma anche per ore, dipende dalla distanza da casa mia.
Guidare è il gioco che più appassiona gli uomini occidentali, e io stesso schiacciando l’acceleratore ho l’impressione di essere onnipotente (seppure il mio veicolo sia tutt’altro che un bolide), ho la sensazione che niente potrà fermarmi. Con una lieve carezza del piede posso ridurre a schizzi impazziti gli alberi e le case. Senza la minima fatica, senza che la mia mente deva stressarsi aizzando e spronando il mio corpo. È il piede che fa avanzare l’auto, sono le mani che si occupano di girare il volante e cambiare le marce, la mia mente può vagare dove vuole lei, esaltata dall’ebbrezza di questo correre a spese dell’olio nero intrappolato tra gli strati geologici. Non c’è quindi da stupirsi che le divagazioni che accompagnano il mio incedere tecnologico siano capricciose e irresponsabili.
Ogni tanto il pensiero torna alla terra che ho messo nel bagagliaio. Penso che appena arrivato a casa dovrò aprire i sacchetti, in modo che possa almeno respirare, seppure imprigionata. La maggior parte dei colleghi non hanno questa accortezza forse eccessiva, forse maniacale, mentre la prima cosa che faccio io, prima ancora di cambiarmi, è quella. Poi li porterò al laboratorio, dove saranno trasformati in numeri, cifre più o meno grandi, con e senza decimali, sopra o sotto la norma. Diventeranno essenzialissimi segni scritti, analoghi per molti versi a incisioni su una lapide: la loro esistenza sarà allora astratta, come appunto quella di un morto. Del resto pure loro hanno lasciato nel posto dove li ho prelevati dei vicini e dei parenti, esattamente come succede alla maggior parte dei defunti.
Non ci penso più ai miei vagiti filosofici nella buca, quando ero stregato dai pezzetti di garza che si sfrangiavano e disfacevano nel mare del cielo. La fuga dalle elucubrazioni elevate mi ha salvato: se avessi continuato a interrogarmi sui massimi sistemi non sarei riuscito a tornare a imbozzolarmi nel presente. Mi sarei solo spossato, finendo forse per andare fuori di testa. Sarebbe però errato dire che delle mie interrogazioni non rimane niente: mi resta un retrogusto nella bocca, una fiacchezza di digestione difficoltosa. So bene, se mi costringo a pensarci, che quando meno me l’aspetto riaffioreranno, e stringendomi la gola con le loro dita dure mi angustieranno ancora con i loro assurdi tentativi di costringermi a capire qualcosa.
(questo testo è apparso su “Nuova Prosa”, numero 66, marzo 2016)
La terra metafisica (autismi della terra # 2) è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.