di Giacomo Sartori
Le parole che leggiamo sono prigioniere, se ne stanno rassegnate nelle loro gabbie modulari, hanno gli occhi spenti. Sono stufe di loro stesse, stufe di noi. Non ne possono più di essere sfruttate come schiave, di essere sprezzate, violentate. Sanno che non possono scappare, e reagiscono non dando più retta a nessuno, lasciandosi andare all’abbruttimento. Se aprono la bocca parlano male – a chi si prende la briga di ascoltarle – dei loro aguzzini, rivelando segreti sulla loro meschinità e sul loro asservimento al potere. Si vorrebbe liberare quelle derelitte, scarcerarle dai giornali e dalle riviste dove languono, dai documenti amministrativi, dalle puerili scene pubblicitarie, dai pretenziosi cataloghi delle mostre, dai minacciosi cartelli stradali, dalle confezioni delle merci, dagli schermi. Scioglierle dalle loro catene e lasciarle correre via, farle tornare nella vita, che è fatta di ripetizione ma anche di imprevisibili accadimenti e incontri, di ineffabili momenti di grazia. Ma non possono, sono come quegli animali cresciuti in cattività, abituati a un solo tipo di cibo artefatto e alla frusta del loro aguzzino. Sanno che morirebbero, se cadessero fuori da quelle spire regolari tanto simili a filo spinato. Meglio allora lasciarle nella loro desolante agonia.
Ognuna di quelle parole potrebbe dire infinitamente di più, evocando la complessità della natura e dell’esistenza, tessendo con gusto bizantino sensi contrapposti, avventurandosi bel al di là dei significati riportati dai migliori dizionari. Questo sanno fare le parole, quando hanno la possibilità di esprimere tutte le loro potenzialità. Le più semplici hanno risorse inaspettate, e a ben guardare i loro rimandi sono sempre molteplici e vertiginosi, volteggiano e giocano negli spazi tra le righe come i profumi ricchissimi ma anche inquietanti di una foresta vergine. Ognuna ha dentro di sé una storia molto intricata che si perde nel tempo, sotto il vestito dall’apparenza comune, così sposato al presente. E soprattutto ognuna racchiude un mistero, proprio come ogni persona.
Anche le parole della letteratura sono quasi sempre prigioniere. Sembrerebbe impossibile che nel regno della libertà assoluta succeda questo, ma è così. Uno apre un romanzo, e dalla prima frase si accorge che lì dentro per loro tira una bruttissima aria. Tutto è lindo e ordinato, con una efficienza ostentata, una voglia di impressionare, ma come nelle peggiori dittature è evidente che si tratta di un’apparenza, e che nei garage delle caserme si tortura e uccide, si violenta. E allora si chiude quel libro e se ne apre un altro, pure lui con le sue barrette da supermercato sul retro, ma anche lì le parole sono forzate in modo brutale a mandare avanti la baracca, per non dire la macchina di guerra, come rematori in un’antica galera. Devono sentenziare banalità già dette miliardi di miliardi di miliardi di volte, devono appagare il fruitore con pigli grossolani e senza sfumature, sedando la sua sete di elevazione.
Perfino nella poesie le parole se ne stanno spessissimo tramortite sulle pagine. Urlano il loro silenzio, più umiliate ancora, perché si aspettavano aria rarefatta e vertigini inesprimibili, quando sono state ingaggiate per un testo poetico. Si aspettavano dolci enigmi e straziati lirismi, siderali glaciazioni, spericolati sperimentalismi sospesi sul vuoto del mistero, ineffabili concisioni e contorsioni, e invece sono messe sotto alla bisogna, come impiegati di un fast food internazionale. Devono inscenare languori di giovincello, dolori da operetta, filosofeggiamenti da professorino in pensione, scontate trasgressioni, smorfie volgari di baldracca.
Dobbiamo imbatterci nella scritta esitante ma anche energica di un bambino, caracollante e vibrante come una città in preda a un terremoto, per ricordarci di nuovo cos’è la libertà delle parole, cos’è la loro poesia intrinseca. Quei vocaboli così semplici con le maiuscole che pencolano o si spintonano sanno spazzare via gli stereotipi dell’uso meccanico, ci risucchiano nei meandri della loro essenza, dove aleggiano gli echi inconfondibili delle verità. Su quei fogli spiegazzati dai colori violenti ogni parola ritrova le sue micidiale potenzialità, la sua capacità di esploderci nel torace. Perfino gli errori di ortografia ci aiutano a andare all’essenziale, perché noi uomini non siamo precisi, anche se ci forziamo a esserlo, e negli sbagli c’è quasi sempre più esattezza che nella ligia disciplina alle regole.
Ma anche molte opere degli artisti cosiddetti outsider sono abitate da frasi che non sanno piegarsi alla pedissequità delle consuetudini. Parole che ci sorprendono, ci bloccano il respiro, ci fanno piangere. Le scritte struggenti su questi cartoni pasticciati di grazia aliena e questi graffiti, su queste porte dipinte, ci ricordano che tutto il nostro sforzo dovrebbe essere volto a liberare le parole, a rispettare la loro complessità e arguzia, a convincerle a aiutarci a andare in profondità e a dire l’indicibile. Ci ricordano che ogni parola scritta dovrebbe suonare come se fosse impiegata per la prima volta. Perché le parole sono sempre nuove, hanno la capacità di rigenerarsi ogni secondo, sono le nostre orecchie che sono anchilosate, e che temono le verità. E allora dobbiamo chiedere che ci aiutino, dobbiamo metterci a lavorare con loro con umiltà, ma anche con orgoglio, accettando pure noi la nostra condizione di outsider.
(questo testo fa parte del catalogo, edito da Electa, della mostra “Arte – Altra Letteratura – Epoi per sempre lumanita”, attualmente al Palazzo Ducale di Mantova, curata da Daniela Rosi e Peter Assmann; per maggiori dettagli si veda la locandina qui sotto; le prime tre opere riprodotte sono di Tiziano Spinelli, da “Il bestiario di Trane”, la quarta di Francesco Galli)
Le parole liberate dagli outsider è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.