Francesco Forlani, Andrea Inglese, Giacomo Sartori e Giuseppe Schillaci, ossia Il Cartello, hanno curato su invito di Luigi Grazioli un intero numero di “Nuova Prosa”, il 69. Presentiamo qui le prime tre voci dell’editoriale scritto a otto mani e il sommario del numero.
EDITORIALE A PIÙ VOCI
FRONTIERA (G. Schillaci)
I luoghi sono unici e diversi, simili, mai uguali. Perché sono tagliati, amputati, circoscritti, e limitati da un quadro, una prospettiva, una frontiera.
Senza frontiera non sapremmo definire un luogo, un’identità, un mondo. In fondo la prima frontiera che conosciamo, che ci definisce è la pelle che separa il nostro corpo « di dentro » da quello « di fuori ». Le frontiere dunque non sono un problema, anzi sono necessarie, fondamentali alla creazione dell’io e di un noi, di un’immagine, di un racconto.
Le frontiere definiscono le regole e le consuetudini, le lingue a volte, le ricette. E le frontiere sono anche metaforiche, ovviamente, tra ambiti diversi dell’umano, tra specie animali e religioni. Così c’è frontiera tra le classi sociali, tra le discipline accademiche e tra le arti, tra i generi letterari e gli idioletti regionali. Io ho la fortuna di poter spesso varcare la frontiera tra letteratura e cinema, ad esempio, non senza un certo timore ogni volta, e di passare dalle distese del cinema documentario alle foreste della finzione, navigando tra interminabili scritture intermedie. Ogni passaggio mi trasforma e mi arricchisce, come le migrazioni ataviche e i commerci millenari hanno cambiato la specie e le civiltà, fino alla meravigliosa aberrazione che è l’uomo contemporaneo.
La frontiera, poi, è quella che passo seduto comodamente in volo, tra la Francia e l’Italia, quando torno a casa per passare qualche tempo con la mia famiglia. Perché qualche anno fa ho deciso di venire a vivere a Parigi, dove ho condizioni migliori per il mio lavoro.
Le frontiere, dicevo, non sono dunque un problema. Non per me. Perché esistono per gestire il passaggio, per essere oltrepassate, infrante, come la placenta che è una pelle da fendere per consentire la vita. Ma frontiere sono anche i muri e i mari, i fiumi in piena, le montagne ghiacciate e i fili spinati. E non posso far finta di non sapere che le frontiere che passo io, quelle di cui ho parlato finora, sono un lusso per i ricchi e i miracolati, per coloro che hanno un passaporto, un lasciapassare, un passacondotto. Per tutti gli altri, invece, la frontiera è immobilità, respingimento, prigione. E tutto ciò è aberrante, terribile. Ha il sapore rancido di una frontiera davvero invalicabile, quella della morte.
LINGUA (G. Sartori)
L’unico criterio sul quale posso basarmi per cercare di valutare se uno scrittore contemporaneo italiano che non conosco è interessante, è vedere se sa piegare ai suoi bisogni, che in genere ancora non conosco, la lingua. Mi basta leggere la prima pagina, o anche aprire il libro a caso, e leggerla. Mi è subito evidente se la lingua è forzata alla volontà e alle esigenze di chi scrive, e mostra una sua necessaria verità e coerenza, o se invece inietta nel testo le sue ovvietà, i suoi luoghi comuni, le sue facilità e stupidità, le sue compromissioni con le ideologie dominanti e il potere, le sue volgarità e sciatterie. O addirittura parla da sola, toglie per così dire la parola allo scrivente. Succede molto spesso anche questo. Lo scrittore vorrebbe dire una cosa, e lei dice qualcosa di diverso, magari il contrario. Lui vorrebbe essere trasgressivo, si crede tale, sforna con candida scaltrezza elementi e situazioni che dovrebbero comprovarlo, e lei è borghesina e noiosetta. Lui si vuole rivoluzionario e battagliero, come dimostra anche la scelta dei temi e intrighi, ci tiene proprio a mostrarsi così, cerca di gridarlo a ogni frase, per consolidare le sue note prese di posizione pubbliche, e lei è conservatrice e retriva. Lui ambisce a darsi un tono alto e distinto, e lei sa di armadio chiuso da troppo tempo, di vestiti che hanno preso irrimediabili odori e pieghe. Ma più spesso lui cavalca tante aspirazioni assieme, forse nemmeno tanto meditate e profonde, e lei domina incontrastata, come quelle voci arroganti che coprono tutte le altre con il loro vuoto. Perché la lingua ha tendenza innata a parlare da sola, a ripetere le cose già dette, a vomitare fuori le idee e le mode dominanti, i cliché del momento. Non è facile costringerla a essere vera, a mettersi al servizio di una visione originale delle cose. Le costa fatica, cerca di sottrarsi.
Sarebbe fraintendermi interpretare le mie parole, utilizzando una griglia filosofica e teorica che non mi appartiene, molto radicata in Italia (e che ha pesato nella nostra storia letteraria), come un dare priorità alla forma rispetto al contenuto. Penso con Rancière che l’una e l’altro non siano opposti, e che i grandi testi risultino anzi da una loro complicità e intimo connubio. E del resto l’esame di cui parlo non è solo linguistico, coinvolge in primo luogo conoscenze psicologiche, sociologiche, storiche, filosofiche, di vita, intuitive, tecniche, scientifiche, che fanno parte del mio bagaglio. Si tratta di vedere come la lingua veicola questi “contenuti” nel testo, se appunto dal loro amalgamarsi con le parole ne esca qualcosa di originale, coerente e solido. Ma l’oggetto preso in esame dalla mia analisi speditiva rimane pur sempre, prima di avere una dimestichezza con il mondo dell’autore, la superficie polisemica e sfaccettata delle parole e delle frasi.
E non sto dicendo che superata la prova della lingua, che appunto non è solo linguistica in senso stretto, lo scrittore deva necessariamente piacermi o apparirmi assai interessante. Il suo universo può rivelarsi anzi molto lontano dai miei interessi più profondi e dalla mia sensibilità, può non sedurmi, o anche darmi noia, indispormi. Considererò però pur sempre quell’autore degno di nota e stimabile. La letteratura è bella e mi attira proprio perché c’è posto per tutti, compresi i posizionamenti più lontani dai miei appetiti.
Questo mio metodo non ha beninteso nulla di oggettivo, e tanto meno di scientifico. Non foss’altro perché è vincolato alla mia cultura e conoscenza dei testi della tradizione letteraria, che sono limitate, alle mie competenze linguistiche e nei vari domini, anch’esse parziali, alla mia sensibilità nei confronti della lingua, personalissima e non quantizzabile, alla mia esperienza della vita, chiamiamola così, anch’essa tutt’altro che infinita, al mio mondo emotivo. E’ quello che posso fare io con i miei mezzi di persona che trova alimento fin dall’infanzia nei testi scritti e che pratica in età adulta la scrittura.
Ho notato che in genere gli scrittori che apprezzo hanno il mio stesso metro di giudizio, e arrivano agli stessi miei risultati. Rimango invece esterrefatto quando constato che critici anche molto colti, anche molto esigenti, e magari conosciuti e influenti, dei quali ammiro l’acume e l’erudizione non hanno questa capacità. Lo ho visto sui miei stessi testi, che venivano fraintesi nella loro complessità linguistica (che può prendere le sembianze d’un tono piano, o invece di registri grotteschi …) per me più che esplicita, ma qui potrei sbagliarmi io. Lo verifico soprattutto osservando la lingua di autori che vengono da essi osannati, o inseriti in antologie, o insomma considerati notevoli. Mentre quelli che io reputo molto profondi, e dotati di una sensibilità eccezionale, di una inventiva rarissima, vengono ignorati. Non potevo crederlo, e invece ho finito per arrendermi all’evidenza: quei critici conosciuti e brillanti mancano completamente di sensibilità linguistica, di orecchio. Giudicano i testi in base a caratteristiche che a me sfuggono, o che comunque hanno ai miei occhi importanza ben minore: forse il tema, i contenuti espliciti, le soluzioni che a me suonano facili. Lo ripeto, non ho però nessuna prova per dire che ho ragione io e non loro. Ci si dovrebbe confrontare su una pagina, e io dovrei dire, partendo forse svantaggiato per erudizione e capacità dialettiche, quello che di scontato vedo e che mi disturba nelle frasi, le zavorre e le inerzie tra le parole e nei vuoti tra di esse.
Non so se questo scoglio dell’espressione linguistica sia centrale anche in altre letterature. Bisognerebbe forse vedere caso per caso. Di certo altre lingue letterarie, e in particolare il francese, che posso giudicare meglio, sono mille volte più sedimentate e codificate, lasciano allo scrittore un margine di manovra lessicale e sintattico infinitamente più angusto. Sono lingue affinate e addomesticate nei secoli, meno eterogenee e confuse della nostra, assediata da una parte da un registro artificiale molto povero di recente conio, con il conformismo culturale che lo accompagna, dall’altra dalla lingua della tradizione letteraria, per alcuni aspetti altrettanto artificiale, e dall’altra ancora dalla ricchezza dei dialetti e delle lingue regionali, miniere inesauribili ma anche pericolose nei loro particolarismi. O lingue tutt’al contrario dal lessico sconfinato e svincolato dal presente, ricchissime e antiche, come l’inglese. Certo è che chi scrive in italiano e vuole sfuggire all’ovvietà non può non prendere posizione, non può non essere innovativo, e per così dire radicale, anche se le possibili vie e le possibile soluzioni per esserlo sono diversissime. E se il risultato è positivo si dirà che il testo è “scritto bene”, anche se confrontando con un altro testo “scritto bene” paiono quasi due animali di specie differente.
LUOGO (G. Sch)
Se non so esattamente cosa c’è sul tavolo, non posso iniziare. Se non ho idea del colore della finestra e dell’odore che c’è fuori, della tonalità della carta da parati e di quella del campanello, del numero della strada e ovviamente del suo nome, e di come quella strada si chiamava prima, e perché… non riesco a scrivere. Se non conosco i sassi e i rifiuti del luogo dove dovrebbe nascere la mia storia, allora l’acqua, che è scrittura e racconto, non scorre; il torrente resta secco, o tutt’al più una pozzanghera.
Il luogo incarna e ispira, iscrive l’autore e il personaggio, dà loro il desiderio di vivere e d’evocare l’altrove o la casa d’infanzia, le ossessioni e i nascondigli, i posti vietati e quelli obbligati, le frontiere, le panchine, i dettagli di un paesaggio, di un palazzo, di un balcone, del mare che sbatte sugli scogli, sullo scoglio, su quello scoglio nero dalla punta biforcuta incastrato tra le alghe verdi come muschio.
Spesso mi metto a scrivere perché innamorato di un personaggio incontrato per strada o su un aereo. Dopo poche pagine, però, tutto si ferma. Se non trovo il luogo d’origine, di partenza e d’arrivo, la scrittura si arena. Nello spazio si articolano e si dipanano le emozioni, come amorevoli ragnatele e circuiti vuoti, o pieni di rabbia, che cercano un senso. E lo spazio, ancora prima del personaggio, ha una sua anima, complessa, stratificata, soggettiva. I latini chiamavano genius loci quello spirito che abita un luogo preciso e che può essere invocato per ottenere sortilegi e buona sorte. Lo scrittore è dunque uno sciamano che cerca di entrare in contatto con il genio del luogo e di far vivere grazie a lui i personaggi, i desideri, la storia.
Si dice che ogni scrittore abbia un luogo di predilezione, una città, un bar, una stanza. Io, in effetti, scrivo spesso su Palermo, col suo genio che mi ha visto nascere. Il genio di Palermo è una statua che esiste realmente; non è solo un pretesto o una finzione letteraria. La statua del Genio di Palermo esiste almeno in quattro esemplari e rappresenta un vecchio mezzo nudo, la barba bitorzoluta, una corona sul capo e un enorme serpente che gli morde il petto. Io evoco sempre il genio di Palermo quando voglio animare un luogo e farlo vivere in una realtà più vera e salvifica di quella quotidiana. Ma il mio genio è capriccioso, è un vecchio che si diverte a mentire e far dispetti, peggio di un bambino di sei anni. Il mio genio resta immobile, lo sguardo severo e vuoto, forse troppo concentrato per darmi retta. E io, a volte, credo che stia ascoltando proprio me, e che tutta quella immota energia serva davvero a dar vita al mondo.
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La letteratura italiana con gli occhi di fuori
Avanpost – à la carte
A cura di Il Cartello (F. Forlani, A. Inglese, G. Sartori, G. Schillaci)
0.1 Il Cartello, Editoriale a più voci
0.2 Il Cartello, Regole del gioco
I
1.1 Francesco Forlani, Introduzione
1.2 Paolo Mastroianni, L’insediamento del nuovo potere
1.3 Biagio Cepollaro, Da “La notte dei botti”
1.4 Azra Nuhefendić, Smijeh
1.5 Valerio Evangelisti, Intervista
II
2.1 Andrea Inglese, Dalle terre di mezzo della prosa: Broggi, Cirilli, Micaletto
2.2 Alessandro Broggi, Da “Noi”
2.3 Fiammetta Cirilli, Le domeniche
2.4 Manuel Micaletto, AFK
2.5 Giuseppe Montesano, Intervista
III
3.1 Giacomo Sartori, Introduzione a Sergio Nelli e Vincenzo Pardini
3.2 Sergio Nelli, Capodanno 2016
3.3 Vincenzo Pardini, Il signor Deando Carrias
3.4 Simona Vinci, Intervista
IV
4.1 Giuseppe Schillaci, L’eredità siciliana nello sfaldamento dell’Italia contemporanea
4.2 Irene Chias, Il posto del sale
4.3 Domenico Conoscenti, Epigrafisti in rosa e nero
4.4 Gioacchino Lonobile, Possibilia
4.5 Tommaso Pincio, Intervista
V
5.1 Francesco Forlani, Riflessi condizionati
5.2 Andrea Inglese, Io davvero non me la prendo
5.3 Giacomo Sartori, Domenica pomeriggio sul ponte
5.4 Giuseppe Schillaci, Lo studio di Sciascia
Biobibliografie