Francesco Forlani, Andrea Inglese, Giacomo Sartori e Giuseppe Schillaci, ossia Il Cartello, hanno curato su invito di Luigi Grazioli un intero numero di “Nuova Prosa”, il 69. Presentiamo qui le ultime tre voci dell’editoriale scritto a otto mani e la nostra nota introduttiva sulle modalità di realizzazione del numero.
EDITORIALE A PIÙ VOCI
MANDATO SOCIALE (A. I.)
Oggi si tende a fare questo ragionamento: una volta gli scrittori (narratori, poeti, drammaturghi) avevano un mandato sociale, la loro arte letteraria riguardava la nazione, o il popolo, o la formazione dei cittadini. Questo accadeva ancora nel Novecento.
Oggi le cose sono cambiate: la letteratura non è più la stessa e lo statuto sociale degli scrittori è stato revocato. Oggi lo scrittore ha soprattutto un mandato commerciale: egli interpreta adeguatamente il suo ruolo se riesce a persuadere un numero importante di lettori ad acquistare il suo libro. Uno scrittore che realizza il suo mandato commerciale può certo essere aspramente criticato per la fattura dei suoi prodotti, ma in definitiva nessuno può permettersi di mettere in dubbio il suo statuto. Bravo o non bravo, egli è un sacrosanto scrittore del XXI secolo. Uno scrittore che invece non realizza il suo mandato commerciale, uno scrittore, insomma, che non vende attira su di sé i più gravi sospetti. Bravo o non bravo, egli non è uno scrittore del suo tempo e, siccome l’epoca attuale non crede in alcuna forma di posterità, lo scrittore che non vende è uno scrittore del passato o di nessun tempo. È uno sfasato, forse interessante come curiosità, ma non pertinente come fenomeno propriamente letterario. Affronteremo nella voce successiva la questione della posterità, ma vediamo di capire meglio come funzioni il mandato commerciale. I critici più aggiornati, anche quelli di severa formazione universitaria, sono ormai d’accordo sul fatto che il mercato editoriale funzioni un po’ come l’inconscio popolare, e quindi le casse del libraio costituiscono la suprema istanza legittimante di un’attività letteraria. Un secolo e mezzo fa, Baudelaire aveva una visione un po’ meno angusta delle cose. Sosteneva che la fortuna letteraria è nelle casse dei librai e/o nella stima dei pari. Oggi naturalmente la seconda opzione assomiglia a un partito preso elitario e antidemocratico. Al di fuori dei grandi numeri, al di fuori di una maggioranza, non c’è salvezza. Dove c’è minoranza, c’è per forza un fenomeno di casta, di usurpazione, ecc.
La nostra impressione, invece, è che l’osservazione di Baudelaire, inaugurando il regime moderno della letteratura e delle arti, rimane ancora oggi grandemente acuta e valida. Il mandato sociale di cui tanto si fantastica, infatti, è fin dall’inizio preso in una contraddizione tra universale e particolare, tra maggioranze e minoranze. In uno dei saggi raccolti da Guido Guglielmi in Ironia e negazione (Einaudi, 1974), leggiamo: “la scrittura classica designava attraverso le sue strette convenzioni il proprio destinatario di fatto e di diritto, la scrittura romantica scardinando il sistema dei generi e degli stili, designa un destinatario di diritto (l’umanità) e un destinatario di fatto (il borghese). (…) L’una appartiene a una letteratura a pubblico particolare (aristocratico) e reale, l’altra a una letteratura a pubblico universale ma irreale”. Il mandato novecentesco, quindi, è sempre stato inficiato da questa interna contraddizione tra una universalità di principio e una particolarità di fatto. E i tentativi delle correnti letterarie progressiste di rimpiazzare la particolarità borghese con l’universalità proletaria non hanno sciolto il nodo. Oggi lo scioglierebbe il mercato: l’unica universalità indiscutibile è quella dell’acquirente. Contro questo principio, possiamo però continuare a difendere la visione baudelairiana, più chiaroveggente. Un libro prima di essere venduto, deve essere scritto. E la scrittura, prima di assumere definitivamente il rigore cristallino della merce, vive di scommesse, di fede, di reciproco riconoscimento tra cerchie ristrette di scrittori-lettori. Se il consumatore ha un inconscio, lo ha anche il produttore. Non solo ma, non pretendendo di risolvere la contraddizione tra universale e particolare tipica del mandato moderno dello scrittore, ci piace pensare che la scrittura sia il luogo non solo del consenso (lo scrittore in fase con i tempi), ma anche del dissenso (lo scrittore sfasato.)
POSTERITÀ (A. I.)
La posterità letteraria pare una di quelle cose che non solo uno non si può più permettere oggi, ma a cui non ci si può appellare senza immediatamente coprirsi di ridicolo. Naturalmente è sempre stato presuntuoso appellarsi alla posterità, ma siccome gli scrittori sono in genere persone presuntuose lo hanno sempre fatto. Il problema è che l’industria culturale, e quella del libro in particolare, non può permettersi margini di posterità, in quanto quello che è stato prodotto, va anche consumato in tempi ragionevolmente brevi. L’obiettivo delle “scorte zero” tocca tutti i settori, quelli creativi e umanistici compresi. Poiché si consuma velocemente e in dosi massicce, tutto quanto non entra immediatamente nel ciclo del rapido e abbondante consumo non ha ragione d’esistere, se non come errore comunicativo, e quindi non solo è destinato a rimanere ai margini, ma lo resterà per sempre. Una qualche profezia (o una qualche previsione scientifica) vorrebbe che nel grande volume di ciò che si propone al consumo, non potrà mai essere riproposto qualcosa che è sfuggito in un momento dato alla voracità dei consumatori. Sembra questo un principio contro-intuitivo, anche dando un’occhiata al comportamento del mercato editoriale che vive non solo di novità nuove, ma di quelle novità ancora più gustose costituite dalle riscoperte, dai ripescaggi, con tutta la mitologia che ad essi si accompagna e che nutre la macchina commerciale. Il tentativo di sopprimere il concetto di posterità, un tentativo che è in qualche modo accettato, se non difeso persino dalla critica, ci sembra allora molto presuntuoso, almeno tanto presuntuoso quanto lo sono coloro che si appellano ad essa, per conferire una qualche legittimità di esistenza alle loro creazioni anche se non incontrano il favore commerciale, ossia il gusto dei tempi. Ci sembra piuttosto che la legge del rapido e massiccio consumo non faccia che produrre serbatoi di posterità, di cui l’editoria, e la critica letteraria stessa, faranno tesoro, l’una per rimpolpare l’urgenza di novità, l’altra per assegnarsi una patente d’esistenza. L’idea, poi, che un testo di una certa articolazione e complessità sia destinato a essere goduto e perfettamente spolpato in una finestra temporale assai breve, appare una concezione un po’ ingenua del funzionamento effettivo degli oggetti letterari. Si dirà che questi oggetti letterari “resistenti”, poco propensi ad essere assorbiti senza residui, sono frutto di pratiche elitarie e sorpassate, che poco hanno a che fare con ciò che detta l’inconscio commerciale. Ma su questo punto, rinvio alla voce precedente: “Mandato sociale”.
RIVISTE (F. F.)
Far parte di una rivista letteraria significa frequentare e vivere con spiriti liberi. E quando si vivono esperienze del genere che si fanno sul filo degli anni e non tramite episodici incontri, qualcosa cambia davvero in te, innanzitutto come essere umano e poi scrittore. Ho partecipato alla creazione di riviste come “Paso Doble” in Francia e “Sud” in Italia, e al di là delle straordinarie partecipazioni, da Peter Handke a Yasmina Khadra, Erri De Luca o Ingo Schultze, e delle belle scoperte di giovanissimi autori, in oltre dieci anni di attività e quasi venti numeri sono innumerevoli i momenti di memoria poetica; uno su tutti l’happening a Procida, ai giardini Elsa Morante con Louis Sclavis, il jazzista francese che duettava con i poeti Biagio Cepollaro e Giuliano Mesa. Perché le riviste ancora oggi? La parigina “Atelier du Roman”, a cui ognuno di noi del cartello collabora, la rivista fondata da Kundera, Lakis Proguidis e Massimo Rizzante è la prova vivente che non solo esiste in Europa una comunità letteraria, ma che questa comunità dispensa letteratura con una generosità che è arte del dono più che della “partecipazione al bel mondo”. Gli incontri si svolgono in bistrot incastonati tra un grand boulevard e una piazzetta, a ridosso dell’Odeon a St Germain de Près, e non accade mai nulla di particolare, che so una presentazione del numero della rivista, di un libro, un dibattito. C’è la consegna ai collaboratori della copia e poi si beve insieme un bicchiere. Milan Kundera, come del resto Fernando Arrabal, Petr Kral, Michel Dèon tra un sorso e l’altro ti tirano fuori davanti a un bicchiere un’osservazione che vale un intero seminario sul romanzo. Perché l’arte del romanzo è innanzitutto arte della vita.
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REGOLE DEL GIOCO
Il Cartello (Francesco Forlani, Andrea Inglese, Giacomo Sartori, Giuseppe Schillaci)
Quando Luigi Grazioli ci ha investito dell’onore di curare un intero numero di “Nuova prosa” l’orgoglio ci ha ovviamente acciecati, rendendoci del tutto incoscienti degli oneri che una tale impresa richiede. Grazioli, lui, che questi oneri si accolla ininterrottamente da anni, ne sapeva diabolicamente qualcosa. Comunque la sfida non solo ci piaceva, ma anche si attagliava alla nostra irrequietezza nei confronti del mondo letterario, di quanto soprattutto vi è di più ufficiale, visibile, dato per ovvio in tale mondo. Almeno due di noi, poi, condividono con Luigi Grazioli questo tarlo, che consiste nel trarre grande nutrimento dal lavoro sempre esagerato della conduzione di riviste. In breve ci siamo divertiti. L’idea era innanzitutto di metterci in ascolto, di dare importanza a quello sguardo tra pari, che non è frutto né del calcolo editoriale né della distanza accademica. Se i libri per esistere in quanto libri hanno infatti bisogno sia dell’editoria sia della critica, per essere semplicemente scritti hanno bisogno di un terreno fatto di passione e amicizia, di curiosità e incoraggiamento, che non è garantito da nessuna economia in atto e nessun sapere codificato. Quindi ci siamo messi in ascolto, e ognuno di noi ha scelto alcuni autori che, per qualche ragione, fossero per lui esemplari di un percorso in movimento e nello stesso tempo di un’idea già realizzata di scrittura narrativa. Non ci siamo quindi dati limiti anagrafici o generazionali. Si è trattato, insomma, di invitare alcuni autori, domandando loro dei testi inediti. (Divenuti poi editi nel frattempo, in alcuni casi.) E ci siamo permessi di scrivere qualcosa su di loro, non da critici ovviamente, ma da compagni di strada, da lettori-scrittori più o meno prossimi alle loro ragioni di scrittura. Abbiamo voluto, però, aprire un confronto più ampio, anche con autori che avessero alle spalle un’opera ormai forte per ricchezza di titoli e considerazione di pubblico e critica. C’interessa ovviamente comprendere come la radicalità di certi progetti letterari possa prendere spazio sulla scena ufficiale e eventualmente modificarla. In questo caso, ognuno di noi ha invitato un autore, a rispondere a un’intervista che abbiamo redatto collettivamente – e l’interesse per i quattro autori invitati era altrettanto collettivo. Infine, sollecitati nuovamente da Luigi Grazioli, abbiamo accettato l’idea di proporre anche dei nostri inediti, dal momento, appunto, che fin dall’inizio l’intero nostro progetto per “Nuova prosa” ha funzionato come una conversazione, un dialogo tra pari, nell’interesse ovviamente di tutti coloro che sono innanzitutto, come noi pure sempre siamo, dei lettori di romanzi, prose, saggi, racconti, poesie, ecc.
Parigi, 19 /06/ 2018
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Foto di Andrea Inglese tratta dalla serie Pagine.