di Giacomo Sartori
Portavi i fiori
portavi i fiori
sulla tomba di famiglia
brullo muro
nel cupo del colonnato
(neoclassicismo malmesso
dei cimiteri)
dov’è il dandy
che tanto t’è mancato
(presenza immateriale)
tua mamma cosmopolita
dalla lingua tagliente
suo fratello incisore
quello erudito
professore e libraio
più giù nella lista
lo scienziato mazziniano
poliomielitico bigamo
tuo cugino narciso
figlio d’una scopata militare
nei Balcani in fiamme
(la madre l’ha portato
in un involto
e s’è riavviata)
superbo e permaloso
(fino alla fine
bisticci e paci
d’indomiti vecchini)
due tue sorelle
ben più belle
(e sposate ben meglio)
e altri nevrotici
(mica si nasce
sotto una zucca
questo vale anche
per me)
ti lamentavi
ch’eri l’unica
a venire a pulire
e curare le piante
senza più patente
era una spedizione
ma c’arrivavi
passetto dopo passetto
poi venuto il momento
hai abiurato
il muro dei boriosi
(la quintessenza)
hai scelto il cimiterino
nella conca di conifere
(tripudio di resine
e oli essenziali)
dove s’è rintanato
tuo marito
(tanto detestato)
spiegami com’è possibile
forse n’avevi abbastanza
dei menti impennati
i guizzi di scherno
le frasi assassine
le liti interminate
dimmi come mai
ma non rispondi
te ne stai zitta
nella vasca verde
a fissare i rapaci
stampati sull’azzurro
nella corona di rocce
coabiti col papà
seppure all’altro lato
(separati in casa
anche da inceneriti)
nella tomba di sua mamma
tra morti che manco conosci
(l’ultima tua stranezza)
dimmi come mai
sei scappata di casa
così vecchina
Se mi fossi messa
se mi fossi messa
avrei scritto gran bei libri
proclamavi
guardando il vuoto
(migliori dei miei
sottintendeva la pausa)
A chi li porto adesso
a chi li porto adesso
i dolci della boulangerie
dell’avenue Parmentier
le tortine caramellate
le millefoglie leggere
ti piacevano tanto
(salivazioni ghiotte
mimetizzate nelle parole)
ti facevano viaggiare
sciamando tra le vetrine
e i tavolini dei caffè
(almeno con la testa)
nella scatola lucida
con corsivi dorati
(eleganza parigina
ormai feticizzata)
acciaccata dal viaggio
per chi potrei comprarli
prima di partire
Cammina più piano
cammina più piano
ho ottantanove anni
eri sbottata
l’ultima visita
sulla salita
verso casa
Quella ragazza
quella ragazza
è giovane e molto bella
sarebbe perfetta per te
mi dicevi
fingendo d’ignorare
ch’avevo da anni e anni
una compagna
(che mal sopportavi)
liscia e splendida
rincaravi con gorgheggi
di mezzana
Quando partivo
quando partivo
non t’abbracciavo
non volevo che
una guancia dura
(indispettita
dai convenevoli)
mi sfiorasse
come congedando
un conoscente
capitava che baciassi
una tua amica
o uno sconosciuto
e non te
poi però i nostri occhi
s’incontravano
come vergognosi
di noi
eri un uccellino
ingordo di trilli
e compagni
attento a non farsi
toccare
(aborrivi i contatti fisici)
Passavo a trovarti
passavo a trovarti
dopo aver rimandato
e ancora rimandato
(non era prioritario)
fatte le mie cose
in lungo e in largo
sbarcavo a notte fonda
m’accoglievi sul tuo divano
in posa come una diva
(quasi fosse l’ora del tè)
contenta di vedermi
pronta a discutere
di questo e di quello
senza farmi pesare
(o solo capire)
ch’avevi atteso
chissà quante ore
Diciamo la verità
diciamo la verità
è anche una liberazione:
niente più costrizioni
o sforzi d’adeguamento
una dismissione dei pretesti
la vertigine d’un panorama
solo aperto
(al disfacimento?)
mater (# 8) è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.