di Giacomo Sartori
Come potevano
come potevano
l’incongruenza del pensiero
la presunzione
la foia di primeggiare
la petulanza
(in sintesi lo snobismo)
dare un cocktail
così umano
e così toccante
come potevi
farti tanto amare?
(tu ch’amare
sapevi male)
A spezzare l’idillio
a spezzare l’idillio
tsunami arcano
(pedissequa gelosia
guardando indietro)
giunse la voce adulta
una prima amichetta
poi un’altra
quasi mogliettina
e non parliamo
dei rivoluzionari
i grezzi operai
il prete spretato
il grecista comunista
coacervo trasandato
(scarpe sformate
e capelli unti)
m’hai ripudiato
come si congeda
un domestico
ch’ha rubato
pure l’amico tanto caro
lo squisito omosessuale
(il mio padrino):
radiato dai radar
del mio esistere
(niente più cartoline
di minareti iraniani
o cupole ottomane)
Basta
basta
basta basta
urlavi sempre più forte
sempre più indignata
era un ordine cattivo
(dismessa l’arma
della logica urbana)
non ne potevi proprio più
pretendevi di morire
grazie
grazie di tutto
hai mormorato
finalmente sollevata
finalmente certa
che t’avremmo uccisa
forse quel grazie
era anche per me
mi dicevo
anche se certo
prima veniva
chi t’aveva accudita
con premure
e protocolli
quasi professionali
In ogni caso
in ogni caso
c’è il divorzio
declamavi
ebbra di rabbia
calcando ogni singolo passo
verso il municipio
(il mio matrimonio
certo tardivetto)
ora per fortuna
c’è il divorzio
urlavi nel vento
crudo di febbraio
come sollevata
d’un grande peso
Salivamo sotto i fulmini
salivamo sotto i fulmini
e gli scrosci freddi
sguazzando in rivoli bui
i vestiti incollati alla pelle
sconsiderati e gai
(solo con lui
l’amico molesto
questi miracoli)
la città sotto di noi
miniatura al cesello
sempre più ridotta
le colline abbacinate
per pochi attimi
poi inghiottite
dalla notte che ruttava
e ruggiva
arrivati a casa
eri roca d’angoscia
(le quattro di mattina
senza chiudere occhio)
scaldasti del latte
manco fossimo bimbi
senza chiedere ragioni
(alcol o droga?)
sollevata
comprensiva
forse felice
l’unico esempio
di dispiegata
dedizione materna
nella mia memoria
Il diciotto maggio
il diciotto maggio
non mi chiamavi
come scordavi
le mie ragioni
e tante cose
(per te comunque
era il diciassette
o forse il venti)
sapevo però che c’eri
e anzi mi divertiva
che ti reiterassi
oggi non si tratta
d’ordine mentale
o di memoria
sei più lontana
cerco nell’aria
umida d’erba nuova
(le stagioni ch’amavi
perseverano proterve
anche senza di te)
la tua presenza lieve
e dispotica
Quando sarò morta
quando sarò morta
non litigate
mater (# 9) è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.