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La bestiaccia (da “Rogo”)

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di Giacomo Sartori

Anna non riesce a connettere, non sa più nemmeno dov’è, non sa più niente. Sa solo che un fuoco le brucia la carne. Un rogo la scardina, come succede ai tetti che ardono, quando le travi di legno crepitano e si sgretolano, franano su loro stesse. Le sue ossa si stanno staccando le une dalle altre, si dislocano. E lei non può fare niente per fermare quella catastrofe, non può difendersi. Può solo aspettare che la sua coscienza si spenga. Che finalmente la sofferenza cessi.

Non è più a tavola, è seduta sul water. Nel grande bagno della nonna con la vasca infossata nel pavimento e la scaletta di legno per accederci. Non sa come ci è arrivata, ricorda solo che non ce la faceva più a stare seduta, e che si è strappata via dalla tavola. Le è rimasto nella mente lo sguardo di Rudy, una di quelle occhiate che ti attraversano senza vederti davvero: stava per chiederle se andava tutto bene – lei lo conosce come le sue tasche – ma poi è stato risucchiato da una frase del dottore. Le sembra però che tutto questo sia successo da tantissimo tempo, quando era piccola. Quando non sapeva ancora che si potesse sopportare un dolore così grande.

Le pare di essersi scaricata, ma non è sicura: il suo corpo non ha più alcuna sensazione precisa, è un ammasso tumefatto di calore insopportabile. Anche quando tocca la superficie liscia delle piastrelle non sente niente. C’è solo quel nemico mortale, che continua a guadagnare terreno, ma non in modo costante, a ondate successive. Parerebbe impossibile che possa ancora estendersi, e invece appena va un po’ meglio è il segnale che sta per arrivare un altro attacco. Sente distintamente che il suo ventre si sta strappando: i muscoli e le membrane e gli organi si lacerano, come quelle degli animali al macello. La stanno macellando.

Ora è distesa nella bizzarra vasca da bagno della nonna. È riuscita a trascinarsi fino alla scaletta in legno da barca e a stendersi: lì sta meglio. Può chiudere gli occhi, può cercare di contrastare quel dolore pazzesco. Per tenerlo a bada stringe i denti con tutte le forze che ha nelle mascelle, strizza tutta la faccia: puntando i piedi e spingendo più che può le sembra che vada un po’ meglio. Punta anche i gomiti, fa forza anche con quelli. È un arco teso allo spasimo, una bestia che ringhia e si difende dalla morte che vuole averla. Perché dopo quelle dislocazioni distruttive può esserci solo la morte. La pressione cresce però ancora, arriva a un punto di non ritorno: è un fiume di lava incandescente che la forza dall’interno. È la fine, si dice. In quel preciso momento è percorsa da uno strattone violentissimo, un sommovimento parossistico che sembra esaurirsi e invece si prolunga, non finisce mai. I suoi pensieri bruciano assieme alla carne, si annullano nell’incendio. Finché di colpo la tensione si spezza, e segue quasi un sollievo.

Adesso il male è cambiato, è diventato quello di una ferita aperta, di una piaga schiaffeggiata dal vento. È più sopportabile. Sente che tra le gambe è bagnata: non se n’era accorta. E nella brodaglia calda sotto di lei c’è qualcosa di duro. Tastando con la mano incontra un ammasso allungato: sembra carne, carne elastica e pesante. Prima ancora di pensarci la solleva, e vede che è un bambino. Un bambino con la testa ammaccata di neonato e con gli occhi spalancati di bambola. A vederlo ha una sensazione di ripugnanza, come quando si adocchia una pantegana o un’altra bestia che non ci si aspettava di incontrare. Lo lascia cadere, si ritrae il più possibile lontana.

Lei non ne vuole sapere di quell’intruso che emette suoni di trombetta rotta. Prova anzi una rabbia istantanea per la sua tracotanza: è lui che le piantava i coltelli nel ventre. Ora è tutto chiaro: approfittando della sua disattenzione si è incistato dentro di lei, e intendeva farla fuori. E adesso piange, vorrebbe intenerirla. Prima ancora di pensarci afferra l’asciugamano appeso al ramo di larice accanto allo specchio, e chinandosi in avanti ce lo infila dentro. Stringe forte, come si avvolgono nella carta i mazzi di fiori. Ma c’è un filo che le impedisce di arrotolare la spugna morbida fino a chiuderla. È il cordone ombelicale, i neonati hanno sempre un cordone ombelicale. Anche quell’intruso ne ha uno. Lo strappa allora come si rompono gli elastici, afferrandolo con le due mani e tirando con tutte le forze.

Il male che le attanaglia il ventre sale fino alle tempie e al cervello, però è viva, sta sulle gambe. Riesce a stare in piedi. E soprattutto adesso conosce l’origine di quel dolore: l’importante è sapere da dove veniva. Ora sa cosa è successo davvero: non c’entrava la carne cruda che ha mangiato in piedi davanti al frigorifero, i veri responsabili sono i Caraibi. Una volta estirpatane la fonte non può però che passare. L’importante è che la causa sia stata sradicata. Ora nessuno le farà più male.

Posa l’asciugamano per terra, e pulisce la vasca con il tubo della doccia. Vuole che quelle macchie e quei grumi rossastri scompaiano, vuole che tutto ritorni come prima. Domani molti ospiti verranno in quel bagno, anche se non è l’unico della casa. Faranno i loro bisogni, o anche solo si risistemeranno davanti allo specchio, come si fa alle feste. È per questo che non devono esserci chiazze rosse nella vasca, e nemmeno tracce lasciate da una pulizia approssimata. I sanitari e le piastrelle devono essere scintillanti e privi di odori come se la nonna fosse ancora lì a vegliare sulla sua reggia. Non sarà certo lei a mandare a monte tutti gli sforzi che ha fatto il nonno perché tutto sia perfetto. Ha già fatto anche troppi disastri, nella sua esistenza.

Il nemico si è rifatto sotto: sente di nuovo i coltelli dentro di lei, sente che scavano ancora. Si siede allora sul water, si stringe la testa tra le mani. Spera che non ricominci tutto daccapo: le sembra che questa volta non ce la farebbe. Non ha più la forza, i danni sono già anche troppo gravi. Mentre si morde il palmo della mano un oggetto molle scivola fuori dal suo corpo, come sputato fuori da una forte pressione, come aspirato verso l’esterno. Una guaina viscida che lei non vuole vedere: preme il pulsante dello sciacquone. Per qualche istante quella spessa membrana ottura la tazza, e invece con palpitazioni di medusa viene poi risucchiata dal foro: il livello dell’acqua torna a essere quello normale.

Adesso c’è una spiegazione. La riconforta avere la sicurezza che non si tratta di qualcosa di irreparabile, e che tutto si aggiusterà. Ora sa che il suo dolore diminuirà. Deve solo aspettare che scemi, come ha fatto in tante altre occasioni. Può vincere quella forza malefica ignorandola, fingendo che non esista, come si fa con le persone arroganti. A questo è abituata. Adesso non ha più nessuna paura.

Si sente molto debole, e ogni movimento le strappa dei gemiti, ma in qualche modo riesce a sfregare e lucidare, se non fa movimenti bruschi può benissimo venircene a capo. Ha l’impressione di nettare anche se stessa, di togliersi di dosso tutto il fardello che l’opprimeva e l’annichiliva. Ha l’impressione di rinascere. Aveva dentro tanta sporcizia, per questo le ultime settimane sono state così dure, per questo non ne poteva più. Adesso se dio vuole s’è scaricata, s’è svuotata completamente. Dall’asciugamano arrotolato escono dei gemiti, ma sono flebili, riesce a sopportarli. Ora la vasca non è più rossa di sangue, non ci sono più quei grumi e quelle bave impressionanti. C’è un buon odore di crema detergente per i sanitari, le piastrelle ricominciano a brillare. Resta solo qualche stria sul pavimento, presto sparirà anche quella. Fin da piccola lei è molto brava a pulire: la nonna per scherzare le diceva che mal che andasse avrebbe potuto fare la donna dei mestieri.

Adesso è un dolore normale, un dolore che non la spaventa più. Un po’ alla volta quel bruciore così intenso diventerà più flebile, e poi ancora sarà solo un ricordo. Succede sempre così: le cose più brutte si trasformano in oggetto di nostalgia. L’importante adesso è sapere che è pulita, che non ha niente di cui vergognarsi. Deve smettere di pensare di essere colpevole di tutto quello che succede: a ben vedere fa anche lei del suo meglio, come tutti. Come dice Rudy il suo difetto è mettersi in testa, dare sempre per scontato che fa tutto sbagliato.

Le sue calze sono ancora intrise di sudicio. Le ha sfregate a più riprese con la pezza umida, ma lasciano pur sempre qualche traccia violacea sulle piastrelle del pavimento. L’unica soluzione è toglierle e metterle sotto il rubinetto, sciacquare per bene anche quelle. Le strizza poi più forte che può e le rinfila: adesso non c’è più il minimo problema. Quando si fanno le cose bene le magagne si aggiustano, questo lo ha imparato. Con un’ultima ripassata il bagno sarà assolutamente perfetto: lucido e scintillante come piace a lei, accogliente. A questo punto dovrà solo sistemarsi un po’ meglio i vestiti. Anche quelli devono essere di nuovo a posto. Tutto deve tornare come prima.

[questo è un capitolo del romanzo “Rogo”, che sarà forse pubblicato a breve e forse no, qualche volta nella vita non si capisce tutto]

(l’immagine: Emil Nolde)

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